Didattica a distanza

Quello tra contenimento e ripresa durante la pandemia di Covid-19 sembra sempre più essere un circolo, ed è sempre più radicata la sensazione che così sarà fino all’arrivo di un vaccino efficace. Nell’ottica che questa condizione emergenziale compia un anno, non si contano i “grandi assenti” tra le tutele fornite dalle istituzioni. In questa prospettiva di scenari mutati, non si dimostrano meno rilevanti le dinamiche di insegnamento-apprendimento.

Che il mondo dell’università sia uno di questi assenti non ci sono dubbi. Tuttavia, mentre si consuma furioso il dibattito sull’utilizzo della didattica a distanza nelle scuole, nelle università italiane è ormai data per scontata un’attesa senza fine della “normalità”.

Il governo ha fornito delle linee guida vaghe, generiche, lasciando di fatto l’intera galassia a (non) risolvere da sola eventuali controversie. Più di altri enti scolastici e accademici, gli atenei hanno dovuto far fronte ad una situazione problematica senza grandi direttive. Come tanti altri comparti, anch’esse si sono aperte alle attività a distanza grazie alla possibilità di erogazioni dei corsi online. Questo mutamento può essere considerato senza indugi epocale, ma purtroppo le Università come enti si sono dimostrate poco pronte al nuovo scenario. Per cercare di far ripartire i corsi il prima possibile ci si è affidati a piattaforme private per le lezioni online, con vasta impreparazione nell’utilizzo. Lacune, queste, che spesso non vengono colmate nella già citata attesa della “normalità”.

Questa inevitabile apertura alla dimensione online ha infatti creato una serie di problematicità sia sull’approccio didattico che una serie di vantaggi, che sembrano essere questioni poco approfonditi dalle Università stesse. 

È indubbia l’indole tradizionalista intrinseca delle Università, essendo esse luoghi per antonomasia in cui risiedono delle formalità secolari. Se si aggiunge il poco tempo e forse anche poca voglia di reinventarsi non è difficile da intuire perché l’approccio didattico non sia particolarmente mutato, come invece è stato per le forme di erogazione. 

In questi scenari modificati, le dinamiche di insegnamento-apprendimento sono state corroborate da un numero incalcolabile di variabili conseguenti al contesto ed al dibattitto (tuttora aperto) sulla pluralità di stili cognitivi e processi di apprendimento degli studenti. La didattica a distanza, oltre ad ovviare al processo di trasposizione didattica, ha colpito il punto essenziale dei tradizionali spazi dell’interazione didattica, che possono essere intesi come la sintesi tra prossemica e comunicazione, come affermano dall’Università di Salerno il prof. Maurizio Sibilio e la ricercatrice Iolanda Zollo. Questi spazi dell’interazione provengono da una lunga tradizione educativa che ha le fondamenta nella paideia, in cui si tiene conto di una distanza interpersonale che a sua volta prendeva spunto dagli elementi che guidano le relazioni private, sociali e istituzionali. 

Un punto rilevante della suddetta questione è la progettazione didattica, che si configura come strumento flessibile che supporta l’azione didattica nel nuovo ambiente digitale di apprendimento, ma deve incoraggiare nel docente una riflessione costante e che deve continuare anche nelle fasi più delicate come la valutazione.

La necessaria virata verso il mondo digitale della didattica ha quindi portato alla luce varie criticità, ma non per questo non potrebbe essere un momento di effettiva apertura per le Università. Il mondo digitale permette una grande flessibilità per incontrarsi e possibilità per imparare nonostante la distanza fisica. Esistono dimostrazioni pratiche di creazioni, grazie al digitale, di “reti” d’insegnamento e di scambio di materiale tra università, vere e proprie ricchezze per le quali il mondo politico, imprenditoriale, aziendale fanno silenziosamente a gara. 

Si potrebbero risolvere questioni annose come le grandi difficoltà riscontrate dai fuorisede; si potrebbe pensare a una riforma del sistema di erogazione di fondi, motivo per cui esistono atenei che annegano nella propria miseria materiale; si potrebbe fornire un impulso per colmare il gravissimo digital divide sul territorio italiano. 

Ma la risoluzione delle controversie e il cogliere le opportunità sono qualità che non fanno ancora parte del DNA accademico italiano. Oggi, più che mai, questi aspetti sono fatti politici ed esecutivi, ambiti in cui le qualità sopra citate sembrano ancora più scarse.

Quali sono gli effetti della DAD

Microsoft Italia ha realizzato, insieme a PerLAB e Wattajob, uno studio sugli effetti delle nuove modalità didattiche dal nome Emotion Revolution: Emozioni e Didattica a Distanza durante l’emergenza Covid-19.

Il rapporto evidenzia l’aumento della stanchezza e dello stress, condizione acuita dal fatto che le nuove modalità siano state adottate velocemente e senza un piano preciso e ragionato. Inoltre, lo studio ha mostrato come seguire le lezioni attraverso uno schermo porti a una maggiore distrazione dello studente rispetto alle lezioni dal vivo, risultando svantaggiato nel non poter interagire in maniera tradizionale con il docente da remoto e ancora più tagliato fuori da un contesto sociale già di per sé danneggiato a causa del virus.

 

Da una parte, ad essere determinante è l’impossibilità della didattica online di consentire la componente relazionale, sociale e di contatto diretto fra individui. Le tre indagini promosse da Laboratorio adolescenza e Istituto di ricerca IARD infatti sottolineano come il senso di solitudine e di isolamento dovuto alla mancanza di interazioni nei luoghi di formazione abbia colpito in percentuale maggiore i giovani e le giovani per il 70%, in contrapposizione al 54% riscontrato tra il corpo docenti. Tuttavia, dall’altre parte, ad entrare in gioco vi sono altri fattori significativi.

A tal riguardo un’altra ricerca svolta dall’Associazione Nazionale Di.Te. (Dipendenze Tecnologiche, Gap, Cyberbullismo), dal titolo Giovani e Quarantena, ha raccolto un campione di 9000 studenti e studentesse dagli 11 ai 20 anni, riportando gli effetti psicofisici subiti dalle nuove generazioni durante il lockdown e la sospensione della tradizionale attività d’istruzione. Ad un aumento dell’ansia, della depressione e dello stress registrato da molti e molte, sono da aggiungere per l’80% degli stravolgimenti del ritmo sonno-veglia con un incremento dei risvegli notturni e un cambiamento delle abitudini alimentari per il 50%, caratterizzato dal mangiare con più frequenza e a qualsiasi orario. Inoltre, sul versante dell’apprendimento, il 15% individua nella possibilità di usare i devices tecnologici un forte motivo di distrazione che concorre a rendere la didattica ancora più spossante e frammentata.

Diversi atenei italiani, nel tentativo di contrastare le ripercussioni a lungo termine sulla salute mentale degli studenti e delle studentesse, hanno implementato i propri servizi di consulenza psicologica traslando le attività in modalità telematica. Un esempio a riguardo è costituito da NoiBene, progetto di ricerca-intervento finanziato dalla Sapienza di Roma, che si delinea come un programma di apprendimento e uno spazio virtuale di promozione del benessere psicologico e per la prevenzione del disagio emotivo.

 

Uno degli ostacoli principali dell’insegnamento a distanza rimane l’inadeguatezza delle infrastrutture e degli strumenti offerti dagli atenei, spesso insufficienti per coprire le necessità di studenti e insegnanti. Le riportate difficoltà di adattamento al nuovo sistema sono state evidenziate da un problema che in Italia esisteva già da ben prima della pandemia, quello del digital divide. Come riportato dall’ISTAT nella ricerca Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi relativa al periodo 2018-2019, il 33,8% delle famiglie non possiede un computer o un tablet e solo il 22% ha un dispositivo di questo tipo per ogni componente. Il quadro relativo al Mezzogiorno è ancora più allarmante: la percentuale delle famiglie prive di un pc o un tablet è pari al 41,6%, a fronte del 30% nel resto della penisola. Inoltre, sempre secondo uno studio ISTAT del 2019, l’infrastruttura informatica non si estende in maniera capillare nella penisola, ma al contrario è distribuita in maniera disomogenea, svantaggiando le zone rurali e il Mezzogiorno. Non è difficile pensare che in questo scenario il passaggio improvviso alla didattica online per studenti e universitari abbia de facto accentuato le discriminazioni dei più vulnerabili. L’accesso fisico e materiale alla rete si è d’un tratto tramutato in un aspetto fondamentale del godimento del diritto all’istruzione. 

Secondo una dichiarazione del ministro dell’Università e della Ricerca Manfredi durante il lockdown circa il 10% degli universitari ha riscontrato difficoltà di accesso alla rete e quindi all’apprendimento e stando ai dati dell’ISTAT ad aprile il 20% degli studenti non aveva ancora accesso alla DAD.

Si intravedono vantaggi?

Se il digital divide crea oggettive difficoltà, non è possibile imputare ogni colpa del disagio nell’insegnamento a distanza alla DAD. 

Il binomio insegnante-cattedra non può più essere indicato per la generazione dei “nativi digitali” e il distance learning ha semplicemente messo in evidenza i limiti dell’insegnamento tradizionale, basato su un’assimilazione passiva di informazioni a ogni livello.

Quando la crisi sanitaria sarà finita, il mondo dell’istruzione non sarà più lo stesso e questa potrebbe essere l’occasione per un cambiamento radicale: nel mondo universitario, tra gli aspetti positivi della didattica a distanza c’è senza dubbio la possibilità di avere orari molto più flessibili potendo seguire le lezioni registrate quando si preferisce, dando modo agli studenti di organizzarsi di conseguenza. Così facendo sono stati agevolati molti studenti-lavoratori che in condizioni normali non potrebbero assistere alle lezioni. 

Negli Stati Uniti è stata infatti riscontrata una elevata adesione ai corsi universitari online proprio perché molti giovani lavoratori hanno trovato il modo di conciliare gli orari flessibili dei corsi alla propria professione. Se da un lato la DAD ha facilitato l’accesso all’istruzione per queste persone, dall’altra ha però svantaggiato gli atenei tradizionali che, secondo una stima dell’American Council of Education, avranno una perdita del 15% delle iscrizioni a favore di quelli telematici, i quali già registrano il 76% delle immatricolazioni dei fuori sede. 

C’è da aggiungere però che grazie a corsi ed esami online molti studenti fuori sede che, secondo quanto riportato dall’Anagrafe degli Studenti, rappresentano il 22% degli universitari, hanno potuto risparmiare sui costi di trasporto e/o di vitto e alloggio. 

Se le nuove modalità dovessero essere adottate anche in futuro, potrebbe essere l’occasione per molti giovani con poche risorse economiche di frequentare l’università altrove, portando a un minore divario nell’accesso all’istruzione.

Divari tra università

Per comprendere gli effetti che la digitalizzazione forzata della didattica universitaria ha prodotto ed ipotizzare le nuove prospettive che questa può aprire, possiamo partire da due assunti piuttosto scontati: la crisi sanitaria ha evidenziato le fragilità di settori, come quello accademico, che hanno subito numerosi tagli nell’ultimo decennio; esiste un sensibile divario tra il punteggio di università meridionali e settentrionali. 

Il sistema di valutazione degli atenei e la conseguente ripartizione dei fondi pubblici si inseriscono da ormai più di dieci anni in un circolo vizioso che ostacola il rilancio delle università del sud, con poche eccezioni. Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) infatti è diviso in due macro-voci: la quota base, che dipende dal personale ed è commisurata alla spesa storica, e la quota premiale, in poche parole quella destinata agli atenei con un ranking più alto e ai dipartimenti di eccellenza. Dal 2009 il rapporto fre le due quote si è progressivamente ridotto a vantaggio della premiale (ad oggi quasi il 30% del fondo, a fronte di un 19% nel 2014), aumentando di fatto le distanze tra gli atenei; il fattore territoriale non è secondario se si considera che i dipartimenti di eccellenza della sola città di Milano (20) equivalgono quasi al numero di dipartimenti di eccellenza decretati in tutto il meridione (25). Gli stessi criteri su cui si fondano i ranking sono ancora lontani dall’essere imparziali. Fra tutti, il Censis si basa su “internazionalizzazione”, “Borse assegnate” e “Occupabilità”. Se i primi due lasciano un certo spazio di intervento alle Università, il livello di occupazione finisce per essere un chiaro fattore di disparità in quelle regioni dove la crisi del 2008 non è ancora stata pienamente superata. Sono queste valutazioni che, sebbene influenzino solo in parte la distribuzione della quota premiale, determinano l’attrattività di un ateneo, con una ricaduta indiretta anche sulla quota base. 

Calata in un quadro del genere, la didattica post-Covid non poteva non far sorgere il timore di un drastico calo delle iscrizioni, specialmente nel mezzogiorno, tanto che lo Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno) a luglio stimava una riduzione del tasso di proseguimento dal liceo all’università di 3,6 punti nel Mezzogiorno e di 1,5 nel Centro-Nord. Eppure, gli interventi del decreto rilancio pare abbiano sortito un certo effetto con: l’allargamento della no-tax area da 15.000 a 20.000 euro, il sostegno alle fasce ISEE più basse e l’aumento dei fondi destinati alle borse di studio, portando così ad un sensibile aumento delle immatricolazioni. 

In particolare nel mezzogiorno, il ministro Manfredi ha riportato un incremento tra il 5% e il 10%.

Sicuramente poter contare su un maggior numero di iscritti è un primo, timido, passo verso un appianamento del divario ma non è detto che questo basti a tirare un sospiro di sollievo. Gli stanziamenti rimangono un intervento isolato, soprattutto se non verranno riconfermati nella legge di bilancio, e il rischio maggiore della DAD sta nel drop-out degli studenti già immatricolati. 

Tutto dipenderà da come gli atenei riusciranno a sfruttare le opportunità della DAD per vincere l’effetto alienante degli schermi. 

In questo senso, la didattica digitale offre degli spunti non trascurabili in un discorso di disparità territoriale: Francis Verillaud, della Sciences Po di Parigi, riporta in una rivista accademica come la Francia sia riuscita, durante e dopo il periodo di lockdown, a creare un network funzionante tra gli atenei locali, in cui hanno giocato un ruolo centrale la conferenza dei presidenti universitari (CPU). Questi network, a parere di Verillaud, hanno reso possibile uno scambio di buone pratiche e soluzioni durante la crisi, oltre ad aver aperto la strada ad un sistema di lezioni online in collaborazione tra gli atenei locali. 

Riuscire ad attivare un simile network nel nostro Paese potrebbe aprire la strada ad un maggiore scambio accademico tra regioni con una rete di ricerca ed insegnamento nazionale, evitando la necessità di una migrazione verso il nord. Questa l’opportunità; il rischio, tuttavia, è che gli investimenti avviati non si confermino come impegni a lungo termine. Il timore è che potranno sfruttare a pieno queste potenzialità gli atenei già predisposti, a maggior ragione considerando che i sopracitati fondi del decreto Rilancio sono stati distribuiti seguendo lo stesso FFO, che ha contribuito a rafforzare le disparità geografiche. 

Non da meno, sono da considerare il diverso livello di alfabetizzazione digitale e la prospettiva territoriale del digital divide: al nord l’85% delle famiglie hanno accesso alla banda larga, poco sotto la media europea, mentre al sud questa percentuale scende di oltre dieci punti percentuali (ad esempio, è il 74% in Sicilia). D’altronde la questione dell’accesso alle tecnologie si è dimostrata già da mesi prioritaria, tanto da far entrare il termine “digital divide” nel lessico comune e da spingere TIM e Cassa Depositi e Prestiti a firmare un accordo con cui dar vita ad AccesCo, la società della rete che dovrà portare la fibra ad alta velocità in Italia.

In questo senso, investire congiuntamente sulla didattica online e su una rete uniformata al livello nazionale avrebbe una ricaduta positiva sulla realtà accademica, permettendo anche nelle aree interne di accedere ad un adeguato livello di istruzione senza per questo accrescere i flussi migratori interni. I tempi, però, si prospettano lunghi. Nell’attesa, non ci resta che vedere se il lancio della didattica online potrà essere un’occasione per armonizzare la qualità dell’insegnamento o sarà l’ennesima opportunità colta solo da chi ne ha i mezzi.

Il “migliore dei mondi possibili” non è quello degli universitari italiani nell’era del Covid-19

Gli studenti universitari italiani hanno dovuto fronteggiare diverse sfide imposte dall’emergenza: dapprima il grande esperimento della didattica online “auto-organizzata” senza distinzione della facoltà d’appartenenza o di ateneo, e poi la convivenza con quest’ultima. Alcune università italiane hanno predisposto per l’inizio dell’anno accademico 2020/2021 l’erogazione di quasi ogni corso in modalità da remoto, altre “le più coraggiose” hanno invece predisposto servizi di prenotazione in aula per poter sostenere le lezioni dal vivo evitando l’accalcamento (o meglio, l’assembramento). Nella macro-categoria degli studenti universitari ci sono delle sottocategorie degne di nota: gli studenti fuori sede, gli studenti affetti da DSA e coloro che hanno inserito nel proprio piano studi accademico un tirocinio curriculare da svolgere in presenza.

Il concetto complesso di vulnerabilità ci catapulta immediatamente nelle sue sfere d’azione per poterla comprendere: da una parte una dimensione individuale e propriamente umana e dall’altra, invece, la dimensione sociale. Entrambe intercorrono tra i binari comuni di fragilità e di debolezza, e le studentesse e gli studenti universitari italiani ne hanno dimostrato le conseguenze durante il viaggio dei tre mesi di lockdown sperimentato per la prima volta tra marzo e maggio di questo anno. 

L’imprevedibilità di un avvenimento – quale è stata l’emergenza coronavirus – nella propria vita quotidiana costringe a confrontarsi con l’insicurezza della società in cui si vive, oltre che con la propria, individuale e intima. Paolo Raciti, pedagogista e ricercatore nell’ambito delle politiche sociali, afferma che la riflessione riguardo la vulnerabilità nella sua accezione di sociale possa interpretarsi come una «riduzione costante delle risorse necessarie a vivere tale condizione, e la contrazione delle capacità individuali e collettive necessarie a trasformare tali risorse in progettualità». 

Di fatto, la vulnerabilità sociale emerge, si mette a nudo, quando si attua un indebolimento di tre sfere principali: il mercato del lavoro, la famiglia e il welfare state. La domanda dunque sorge spontanea: il Covid-19 non ha forse indebolito tutte le connessioni tra le tre sfere? Quali risorse e quale progettualità sono state messe in campo per il mondo universitario italiano post-lockdown? 

Se il lavoratore fragile non è abbastanza

Considerato il concetto di vulnerabilità sociale, secondo le parole presenti all’interno della circolare n.13 interministeriale (emanata lo scorso 4 settembre) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero della Salute, il lavoratore fragile diventa una categoria propriamente sociale. In particolare, si afferma che «il concetto di fragilità va dunque individuato in quelle condizioni dello stato di salute del lavoratore o lavoratrice rispetto alle patologie preesistenti che potrebbero determinare, in caso di infezione, un esito più grave o infausto e può evolversi sulla base di nuove conoscenze scientifiche sia di tipo epidemiologico, sia di tipo clinico. Con specifico riferimento all’età va chiarito che tale parametro, da solo, anche sulla base delle evidenze scientifiche, non costituisce elemento sufficiente per definire uno stato di fragilità nelle fasce di età lavorative». Si aggiunge, inoltre, che la condizione di fragilità non vada accertata tramite espediente clinico. Se la tutela normativa avviene nel mondo lavorativo, perché questo concetto di fragilità non può essere declinato anche per tutte e tutti coloro che frequentano gli atenei italiani? 

Inoltre, il concetto di “studente fragile”, esonerato dall’obbligo di frequentare in presenza le lezioni per motivi di salute fisica, non sembra contemplare all’interno del sistema universitario quella parte di studenti che presentano difficoltà cognitive o emotive nell’apprendimento. 

Nel Rapporto di Talents Venture, società di consulenza milanese volta al sostegno dell’istruzione universitaria, riguardante gli impatti del Covid-19 sugli universitari italiani si osserva una forte preoccupazione da parte della maggioranza degli studenti in merito alla qualità di una didattica poco inclusiva come quella da casa, invece molto apprezzata dagli universitari affetti da DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento). Per questo motivo ad ottobre 2020, con la ripresa delle lezioni in presenza per molte università, l’Associazione Italiana Dislessia non ha gradito le affermazioni di Francesco Sinopoli, segretario generale della FLC-CGIL (Federazione Lavoratori della Conoscenza), dettosi contrario all’utilizzo di videoregistrazioni per la didattica a distanza. Sinopoli aveva espresso il suo dissenso inviando una lettera ai Rettori delle Università italiane in cui contestava l’obbligo imposto da alcuni atenei di registrare le lezioni tenutesi didattica a distanza. Secondo il segretario la scelta di quale metodo didattico utilizzare dev’essere a discrezione del professore o, nel caso delle lezioni registrate e condivise online, limitata a una situazione emergenziale (quale è stato ad esempio il lockdown). Al contrario l’AID evidenzia come la didattica a distanza abbia giovato agli allievi con DSA e debba essere considerata uno strumento insostituibile per garantire loro il diritto a poter fruire dell’apprendimento con accorgimenti e mezzi adeguati attraverso la videoregistrazione obbligatoria non limitata alla sola emergenza attuale. B.B., pedagogista clinica, nell’illustrare a Scomodo la situazione, sottolinea quanto per uno studente con DSA possa risultare difficile e/o impegnativo seguire un percorso di studi universitario, sentendosi spesso scoraggiato in partenza dall’intraprendere il cammino verso la laurea. Il lockdown e, nello specifico, la didattica a distanza adottata dagli atenei italiani durante questo periodo ha dimostrato come un metodo d’insegnamento più inclusivo e adeguato alle necessità di coloro che hanno un disturbo dell’apprendimento possa essere un incentivo a proseguire gli studi dopo il diploma.

Chi siamo e cosa non saremo

Gli studenti “fragili”, dunque, costituiscono una fascia ampia. In molte e molti, per il conseguimento di conoscenze e competenze inerenti al proprio percorso di studi, necessitano di esami e corsi in presenza.

Alessandra è studentessa di Medicina a Salerno, e racconta che «da febbraio a giugno non si è svolta alcun tipo di attività di tirocinio in presenza, soltanto online. A luglio si è sbloccato qualcosa, ma non più di tanto. Da poco ci è arrivata la comunicazione che sarebbero cominciati i tirocini online ma del quando-come-e-perché non sappiamo nulla. Il nostro corso prevede a partire più o meno dal terzo anno per ogni esame una quantità di numero di ore da dedicare al tirocinio che noi chiamiamo “FP”. Quindi, in pratica, in base al numero di crediti formativi ne consegue un numero di ore per il tirocinio. Il problema è che da febbraio non abbiamo fatto nulla, zero. Ovvero, le lezioni che si sarebbero svolte normalmente in presenza sono state ampiamente sopperite con la didattica da remoto che ha funzionato comunque bene. Per quanto riguarda i tirocini invece è un discorso pratico. Non potendo accedere al reparto, sono stati sospesi e non si è fatto nulla, e adesso ci ritroviamo a dover recuperare tutti i tirocini dell’anno scorso, oltre a quelli di quest’anno con, se va bene, il doppio delle ore. Io mi immedesimo anche nella difficoltà del docente nel portarsi il computer o il tablet in reparto o nelle stanze ai piedi dei pazienti, ti rendi conto che è una situazione piuttosto infattibile e non praticabile. Certo, aver saltato tutte queste ore di tirocinio non è stato un bene perché non è all’altezza dell’offerta formativa, anche se durante le ore di lezione comunque i professori hanno presentano dei casi clinici. Un poco di pratica te la fanno fare; certo che è diverso dall’entrare in reparto e vedere con i tuoi occhi cosa succede». 

Denise, invece, è studentessa di Infermieristica a Catanzaro, ed è stata tra le studentesse a contattare Scomodo in prima persona, raccontando la sua personale esperienza riguardo al tirocinio necessario previsto per tutti i tre anni di studi. Ribadisce poi che a causa del lockdown ha avuto modo di intraprendere un’unica settimana di tirocinio perché, ironia religiosa a parte, nel suo settimo giorno di tirocinio l’intero Paese è stato “chiuso” e la sua università ha scelto di sospendere i tirocini fino a data da destinarsi, per salvaguardare studenti che per decreto ministeriale avrebbero potuto continuare la formazione. «Ci hanno lasciati in balia del niente: ci hanno dato delle slide da leggere da cui poi sviluppare dei casi clinici sui quali ci avrebbero valutati oralmente. Essendo noi matricole non avevamo neanche idea di cosa fosse un caso clinico. Il fatto di non svolgere una formazione pratica per noi infermieri è un grosso limite. Come ci hanno indirizzato non è andata bene e la preparazione ottenuta non è adeguata; non abbiamo imparato niente di quello che avremmo dovuto imparare». 

Beatrice, studentessa di Scienze motorie (Asti), spiega a Scomodo la sua esperienza didattica e ciò che è stato fatto per sopperire all’impossibilità di “praticità accademica”. «Il nostro percorso di studi prevede molte materie pratiche, quindi eravamo noi a filmarci e inviare ai professori i video per far vedere che avevamo capito gli esercizi. L’unico modo era quello. Anche un esame che doveva essere sostenuto con la pratica è diventato un test riguardante delle domande plausibili su una qualche attività da svolgersi. Non avendo tuttavia ricevuto le basi per noi era impossibile avere un’adeguata conoscenza pratica». Riguardo al tirocinio prosegue Beatrice: «fortunatamente io avevo 250 ore da conseguire e le ho finite subito. Ho iniziato a settembre in una palestra di CrossFit, ho lavorato fino alle vacanze di Natale comprese e ho ripreso appena hanno riaperto le palestre, ma per i miei compagni che hanno fatto tirocinio nelle scuole… hanno bloccato tutto. Alcuni stanno recuperando adesso il tirocinio dello scorso anno di 250 ore congiuntamente a quello del terzo di 200 ore». 

Data l’inadeguata risposta a tutte queste necessità diventa cruciale capire se e come siano stati applicati dei “metodi alternativi” per conseguire la formazione curricolare, e se la didattica possa essere stata efficace e adatta al conseguimento delle necessarie conoscenze e competenze. 

Elisa, studentessa di Restauro e Conservazione per i beni culturali (Como), al terzo anno del suo percorso quinquennale, afferma che aldilà di alcuni corsi – quattro su undici in totale – rimandati al periodo estivo, la didattica svolta a distanza è stata adeguata, aggiungendo che: «Non si poteva fare altrimenti. Per esempio, la nostra professoressa di doratura ha provato a proporre due lezioni online, ma purtroppo per quel corso mancava la parte pratica. La professoressa ha fatto del suo meglio ma, se tu mi parli di una sostanza con una densità o un odore particolare, come faccio a percepirlo attraverso uno schermo?». 

La percezione della tutela accademica tra le studentesse e gli studenti intervistati da Scomodo è stata univoca, e negativa.

Tra le varie critiche, viene sottolineata la poca chiarezza e comunicazione tra gli atenei e i propri ospiti universitari. A tal proposito Denise afferma che «adesso vociferano che il tirocinio sarà al 70% online e 30% in presenza. Non abbiamo ancora capito però come si possa tenere il tirocinio in presenza tutelando la salute degli studenti, visto l’aumento di casi di Covid-19». Inoltre, l’ateneo di Denise, così come altri, ha suggerito l’introduzione di una clausola riguardante gli studenti residenti fuori dalla regione che saranno esonerati dalle lezioni in presenza. Non solo, allo stesso tempo saranno esonerati dal tirocinio e «di conseguenza perdi l’anno. Perciò chi abita fuori dalla Calabria, che sia uno studente fragile o meno, viene discriminato e privato del proprio diritto da studente, non potendo sostenere il tirocinio di quest’anno. E dunque gli studenti, noi, mandiamo mail per lamentarci, per chiarire la situazione. Non tutti possono affrontare il viaggio, che sia per motivi economici, di fragilità, o per tutelare la propria salute e quella dei propri parenti. Ma non rispondono neanche alle mail, ci stanno probabilmente ignorando».

Gli effetti della vulnerabilità sociale nella sfera economica

Secondo lo stesso rapporto di Talents Venture, il 91% degli intervistati crede che ci saranno delle grosse difficoltà economiche da parte delle famiglie per finanziare l’istruzione degli stessi. Al di là dell’eterogeneità di risposta riguardo alla difficoltà finanziaria, è presente un 32% del campione intervistato che sostiene che la pandemia influirà sulla scelta dei futuri immatricolati rispetto all’iscrizione all’università. Tra le motivazioni che sono state date per la rinuncia universitaria sono presenti mancanza di speranza nel futuro, didattica di scarsa qualità e poco inclusiva, ragioni economiche, rischio sanitario ed infine il blocco agli spostamenti. Per quanto riguarda la sfera economica, nella Legge di Stabilità del 2017 era stata istituita una nuova manovra finanziaria con lo scopo di favorire e migliorare l’accesso all’università da parte dei giovani: lo Student Act. Il Governo ha fissato la No Tax Area per gli studenti universitari che si applica a tutte le istituzioni universitarie (e AFAM) che consente – nel dettaglio – l’esenzione totale dal pagamento delle tasse universitarie per coloro che hanno un ISEE inferiore a 13.000€ e per le matricole, per coloro che invece superano detta soglia e hanno un ISEE compreso tra i 13.000€ e i 30.000€ è prevista comunque una riduzione delle tasse universitarie, che per legge non possono ad ogni modo superare il 7% della differenza tra ISEE e la soglia di esenzione a 13.000€. Per gli studenti del secondo anno e per tutti gli anni a seguire, l’agevolazione è mantenuta solo se vengono raggiunti determinati requisiti di merito.

Quest’anno però, secondo il D.M. n. 234 del 24/06/2020 a seguito dell’emergenza Covid-19, è stata prevista un’estensione della No Tax Area per chi ha un ISEE fino a 20.000€ portando i beneficiari della nuova estensione a quota 230.000, con l’aggiunta di circa 300.000 destinatari della scontistica, per un totale di circa 820.000 studenti beneficiari di agevolazioni economiche (stimando per eccesso). La manovra sarà finanziata con 165 milioni di euro, ai quali si aggiungono altri 115 milioni di euro stanziati dal MIUR per supportare l’incremento di beneficiari; finanziamento che tuttavia, secondo le osservazioni effettuate da Talents Venture, non basterebbe a coprire il mancato incasso dalla contribuzione studentesca che quest’anno potrebbe superare i 163 milioni di euro, non tenendo poi in considerazione un possibile scenario in cui le famiglie degli studenti accademici possano aver registrato una forte contrazione del proprio ISEE. 

La situazione potrebbe essere decisamente peggiore rispetto a quella analizzata da Talents Venture, che sottolinea la mancanza di un interlocutore importante: gli studenti con un ISEE superiore a 30.000€. Secondo la società di consulenza, «nelle università pubbliche nell’anno 2018/2019, chi pagava una retta annua superiore ai € 1.200 – ISEE superiore ai 30.000€ – era pari al 50% dei paganti che contribuivano per l’80% degli incassi da rette universitarie per i corsi di laurea percepite dagli atenei. Questo mezzo milione di studentesse e studenti, appartenente ad un ceto medio troppo ricco per ricevere un’agevolazione economica e neppure così autosufficiente per completare senza troppi problemi un investimento rivolto all’istruzione universitaria, potrebbe subire un forte contraccolpo per due ordini di ragioni: la prima, perché resterebbe abbastanza scoperto da sussidi economici, e la seconda perché gli atenei potrebbero decidere di scaricare, in parte o in toto, proprio su di loro i mancati incassi provenienti dai ceti più bassi».

Le prossime vittime del mercato del lavoro

Che la situazione lavorativa nella fascia giovanile sia drammatica non è un mistero. Che però questa sia stata oggetto di un vertiginoso declino causato da una pandemia globale più che sorpresa potrebbe destare molte preoccupazioni. Come ricorda Talents Venture nel suo report, «all’interno dell’attuale dibattito pubblico si stanno tralasciando i laureati dell’anno 2020, i quali potrebbero rappresentare l’ennesima generazione perduta». Ciò che è più evidente è che ad essere maggiormente colpiti siano i giovani appena laureati, privi e privati della possibilità di stabilizzare la propria situazione economica ed anche secondo AlmaLaurea, i dati che si riferiscono ai primi mesi del 2020 rivelano un forte calo nell’occupazione dei laureati (precisamente del -9%). Attualmente il tasso di occupazione giovanile a livello europeo, infatti, è il più basso, con meno del 57% contro una media europea del 76% riguardante la fascia di età dai 25 ai 29 anni. Gli universitari, dopo aver subìto il colpo della pandemia che ha fatto emergere a più livelli (economico, familiare e accademico) la propria situazione personale, sono stati e continuano ad essere le “vittime” preferite di un mercato del lavoro in panne. Nello specifico, il riferimento alle conseguenze dello studente o della studentessa si identificano con l’aumento sensibile degli affitti delle case, il blocco delle lezioni di presenza e il fenomeno del grande ritorno nei “paeselli” natali. Ecco che in questo scenario prende forma e cresce con più facilità il fenomeno NEET ossia, come definisce sapientemente Treccani, dei “giovani alla ricerca attiva di occupazione che non lavorano ancora, inattivi, cioè giovani che non cercano e non sono disponibili a lavorare, gli scoraggiati, vale a dire i giovani che hanno definitivamente rinunciato a cercare un’occupazione e sono usciti dal mercato del lavoro”. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) ha evidenziato le perplessità dei giovani con gli occhi spalancati sullo scenario post-pandemico. Negli ultimi venti anni, i giovani – i Millenials e la Generazione Z – sono stati abituati sia a convivere con una certa instabilità economica (basti pensare prima allo shock monetario con l’ingresso dell’euro e poi con lo shock finanziario dovuto alla crisi del 2008), sia a saper scegliere il “mestiere” in maniera poco astratta e irrazionale ma in modo più plastico. 

Tutte queste premesse hanno dato vita ad una scelta fondamentale per approcciarsi al mondo lavorativo: il percorso di studi da intraprendere. Non rifacendosi quindi al mito del “sogno nel cassetto” ma piuttosto a ciò che le dinamiche del mercato del lavoro richiedono e alla quantità di individui specializzati in quel determinato settore. La crisi europea del 2012 ha portato la disoccupazione giovanile a sfiorare il 45% e a distanza di otto anni le sorti dei più giovani non sono ancora state rassicurate da alcun tipo di mossa istituzionale. E la pandemia sembra aver riportato in luce un nervo scoperto. L’ultimo rapporto dell’OECD ha rilevato come una delle preoccupazioni maggiori dei giovani durante la pandemia sia l’aumento del debito pubblico e le statistiche della Banca d’Italia, infatti, hanno mostrato un’impennata ad agosto: il debito delle amministrazioni pubbliche è balzato a quota 2.578,9 miliardi di euro, precisamente 18.3 miliardi in più del mese precedente. L’opinione prevalente è sicuramente che qualsiasi misura di politica economica sulla ripresa del bilancio mirata a ridurre il deficit pubblico colpirà maggiormente i giovani, che portavano già sulle spalle un debito pubblico nel 2019, secondo i dati della Banca d’Italia, pari 2.409,2 miliardi. Ebbene, gli universitari italiani sono consapevoli che questa crisi sarà un ulteriore limite alla ricerca di un lavoro adeguatamente retribuito e con un contratto a tempo indeterminato (oltre la metà degli intervistati da Talents Venture la pensa in questo modo).

La generazione dei non-essenziali

In Italia, secondo l’analisi del portale di informazione economica Lavoce.info, più del 25% degli occupati nelle cosiddette “attività non essenziali” durante il lockdown iniziato lo scorso marzo, ha un’età compresa tra i 20 e 29 anni e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha sottolineato che più di quattro giovani lavoratori su dieci erano impiegati, prima della crisi, in uno dei settori considerati tra i più colpiti dal Covid-19. 

La riflessione conseguente alla lettura di questi dati emersi potrebbe vertere su due punti: il primo potrebbe essere che molti giovani erano quasi obbligati a impiegarsi in determinati ambiti, svolgendo le più svariate mansioni (cameriere e camerieri, commesse e commessi, tutor privato, baby-sitter o altro) cercando di conciliare al meglio studio e lavoro, per far fronte all’elevato costo di vita richiesto nella maggior parte delle città universitarie. 

Il secondo aspetto rilevante potrebbe essere invece il fronte di chi aveva già in origine deciso di dedicarsi interamente al lavoro, per guadagnarsi dopo i primi anni della maggiore età un’indipendenza economica, ma è stato ora accompagnato in maniera forzata a ritornare al proprio punto di partenza e richiedere un sostegno “momentaneo” al proprio nucleo familiare, sapendo che l’avverbio usato si presta ad un arco temporale più ampio del solito. 

Il “nostro tempo” richiede un forte senso di ri-adattamento, di flessibilità mentale, di abbandono delle proprie abitudini: la richiesta è un approccio di forte responsabilità e senso civico. Sicuramente l’intera condizione di emergenza ha destabilizzato e continua a destabilizzare indipendentemente dalla fascia d’età; in particolare, quella giovanile è tra le più ferite, ma è anche la categoria che meglio si presta ad accogliere un cambiamento celere al fine di rappresentare quel quid pluris che potrebbe determinare la creazione di una scialuppa di salvataggio per l’intero Paese. 

Con i contributi di

Marina <br> Roio
Marina
Roio

Redattrice

Pietro <br> Forti
Pietro
Forti

Redattore

Elena <br> Potitò
Elena
Potitò

Redattrice

Giulia Falconetti
Giulia Falconetti

Redattrice

Chiara Falcolini
Chiara Falcolini

Redattrice

Federica Tessari
Federica Tessari

Redattrice

Elena Lovato
Elena Lovato

Redattrice

Federica Carlino
Federica Carlino

Redattrice