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Curva Nostra

Una riflessione sul lato più oscuro del calcio italiano

Un’analisi della collusione tra le mafie e il calcio che parte dallo stadio, specchio della nostra società, per capire le problematiche socio-economiche che hanno permesso l’infiltrazione delle cosche. Il business, il controllo del territorio e la legittimazione sociale: come dal campo le mafie si sono ramificate in tutti i livelli del tessuto sociale dalle dirigenze calcistiche alle amministrazioni comunali.

La scesa in campo

Curva Nostra

Il significato del calcio

«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Partendo da questa massima di Pier Paolo Pasolini possiamo leggere i due grandi significati che il calcio ha per la nostra cultura ed identità nazionale; Il calcio è innanzitutto sacralità, è un rito comune che supera le disuguaglianze sociali e trascende la semplice passione per ergersi a vera e propria fede. Allo stesso tempo, però, il mondo del calcio è specchio della nostra società, riflettendo un’immagine fedele di quelli che sono i costumi, i contrasti e le contraddizioni che attraversano la nostra penisola. 

Riflette in primis la nostra dimensione economica, è innegabile che negli ultimi decenni il calcio sia diventato anche e soprattutto un business. A partire dagli anni ’90 la sua importanza economica è cresciuta a dismisura: sponsor, diritti televisivi e merchandising garantiscono ai principali club europei milioni di euro ogni anno, il mercato dei trasferimenti si è globalizzato aumentando la concorrenza e  le squadre sono ormai diventate vere e proprie società, spesso quotate in Borsa, per un giro di affari da 5,7 miliardi di euro all’anno, pari al 5,7% del PIL nazionale; in questo giro di affari, capitali e persone si replicano tutte quelle dinamiche istituzionali, politiche ma anche criminali della nostra società, come nella vicenda di Calciopoli e nelle bancarotte fraudolente di grandi società calcistiche.

Ma è la dimensione sociale a venire ancora di più in rilievo: negli stadi, dove ogni domenica si riversano migliaia di persone, si amplificano ed esasperano i conflitti sociali che trovano sfogo dietro la maschera della rivalità calcistica. Più che l’oppio per i popoli il calcio sembra essere la valvola di sfogo di tutte quelle situazioni sociali che non trovano espressione tramite gli apparati istituzionali.



Lo stadio: un micromondo specchio della società

Quello che era uno gioco oggi è diventato un centro d’interessi; quello che era una lingua universale capace di trasmettere valori al di là dei confini e delle culture oggi è diventato un megafono che veicola la rabbia, il razzismo e il malcontento sociale.

In questo humus socio-economico le criminalità organizzate trovano terreno fertile per assoldare nuove leve nelle curve, ricavare grandi introiti dal business del calcio e orientare il malcontento sociale a proprio favore offrendo guadagni diretti e un senso di appartenenza che lo stato non riesce a dare.

Lo stadio è dunque la realtà con cui dobbiamo scontrarci, un micromondo senza filtri e selezione al suo interno in cui per novanta minuti i dirigenti e i politici siedono in tribuna a poche centinaia di metri dalle curve dove trovano posto, oltre ai tifosi, le varie criminalità organizzate. Si tratta di una vicinanza purtroppo non solo fisica ma reale: le mafie sono entrate nel mondo del calcio e a tutti i livelli, dall’acquisto delle società dilettantistiche tramite le quali fortificano il controllo sul territorio e ampliano il proprio consenso sociale alle infiltrazioni nelle società di massima serie, basti pensare al tentativo del clan dei casalesi di acquistare quote della Lazio o la recente indagine che ha svelato il business della ’ndrangheta nelle curve della Juventus. Tramite il calcio, oltre ai soldi, è possibile riciclare la propria immagine ed accedere a quegli ambienti istituzionali tanto ambiti dalle cosche.

Dentro e fuori lo stadio, Il calcio come veicolo dell’infiltrazione

Come nella società, la presenza della criminalità organizzata nel calcio è una realtà tanto radicata nella sfera economica e sociale ma altrettanto silente e nascosta. Questo Focus si pone l’obiettivo di fare luce proprio sulle zone più oscure del calcio italiano che trovano nelle curve la propria legittimazione territoriale ma che si estendono anche al di fuori di essi ramificandosi nelle dirigenze calcistiche, nei settori giovanili fino alle amministrazioni comunali.

Lo stadio sarà dunque il punto di partenza dell’analisi in quanto momento genetico del fenomeno, in quanto campo dove si innesta il seme delinquenziale, dove cresce e si fortifica ma che poi estende le sue radici al di fuori di esso per raggiungere tutti gli strati della società, delle cui risorse si nutre silentemente.

I primi rapporti ufficiali Mafia-Ultras: dal caso Raciti al caso Lo Russo

L’ingresso delle mafie negli stadi e in particolare nel movimento ultrà non ha avuto un momento storico preciso, avviene intorno agli anni ’80 e in maniera lenta ma graduale.

Non è infatti semplice distinguere la delinquenza comune e le regole “non scritte” dei gruppi ultrà da quelle che invece è la criminalità organizzata e le dinamiche omertose delle mafie.

Uno dei primi casi di accostamento della mafia ai gruppi organizzati si riscontra nel 2007, dopo la morte del poliziotto Filippo Raciti. Tutto inizia da un’indagine sui leader del gruppo Irriducibili, Rosario Piacenti, appartenente a una famiglia mafiosa, e Stefano Africano. Entrambi, nel 2016 sono stati condannati per tentata estorsione aggravata dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa dei Cursoti, ai danni del giocatore del Catania Marco Biagianti. Mai prima d’ora si era registrata ufficialmente un’infiltrazione mafiosa nel mondo del calcio, e questa vicenda iniziò a mostrare che vi potevano essere dei legami.

Grazie al caso Catania si inizia infatti ad indagare su altri possibili rapporti tra mafia e gruppi ultrà, fino a quando viene alla luce la vicenda ancora più eclatante del Napoli. Antonio Lo Russo, ex boss del clan Capitoni di Secondigliano, si trova a bordo campo durante Napoli-Parma del 2010. Lo Russo non era però un semplice boss: in quel periodo era latitante, e in quel momento il San Paolo era per lui un luogo sicuro. Lo Russo aveva ricevuto un pass come giardiniere, e a mettere in contatto la società e il boss era stato un capo ultrà napoletano. La vicenda fu una testimonianza ulteriore, un passaggio evolutivo che dimostrava una presenza non più occasionale ma territoriale. Sulla scia della vicenda Lo Russo si capì che al San Paolo esisteva una suddivisione tra Curva A e B, che rispecchiava non solo diversi gruppi ultrà ma soprattutto diversi clan camorristici, lo striscione recante il nome del gruppo ultrà diventa vessillo dell’appartenenza ad un clan.

Nella capitale è l’estrema destra a fare da raccordo tra le due parti

Nella capitale invece l’elemento di novità non si rinviene tanto per l’infiltrazione negli stadi, ma per la comparsa di un nuovo elemento, un terzo attore che funge da mediatore tra gli ultras e la mafia, ovvero l’estrema destra. La camorra, forte del potere radicato nella zona di Roma Nord, consolidato fin dagli anni settanta quando Michele Senese strinse rapporti con esponenti apicali della banda della Magliana, decide di puntare in alto e prova ad acquistare quote della Lazio, entrando così nella dirigenza. La cordata era capeggiata dall’imprenditore Giuseppe Diana che si muoveva secondo le direttive del boss dei casalesi Michele Zagaria, per la riuscita dell’operazione viene coinvolto il gruppo ultrà di estrema destra gli “Irriducibili” che lanciano una forte contestazione al presidente Lotito e che riescono addirittura a coinvolgere Giorgio Chinaglia, ex stella e beniamino dei tifosi, a porsi come volto a capo della cordata per l’acquisto delle quote della Lazio. Il tentativo fallisce per il sospetto che aveva destato alle autorità vigilanti i movimenti insoliti di capitali detenuti all’estero dalla cordata ma ciò che colpisce della vicenda è che l’obiettivo dei Casalesi in questa situazione non era il profitto, era ancora una volta il potere. L’acquisto di una società come la Lazio infatti non avrebbe garantito profitti ingenti – in una società di questo calibro è infatti più facile perdere soldi piuttosto che guadagnarli – con questa operazione il clan di Casal di Principe cerca altro, l’oggetto del desiderio si trova all’interno dello stadio Olimpico. Ogni domenica il cuore della Tribuna Monte Mario si popola di figure di spicco, la Roma che conta è riunita per novanta minuti sulle 230 poltroncine della tribuna autorità: parlamentari, ministri, uomini d’affari, imprenditori, persino il Presidente della Repubblica assiste a qualche partita. Avere un posto in quel settore – per di più entrandoci da protagonista – avrebbe assunto un valore incalcolabile per il clan. Non solo un prestigio enorme per i soggetti criminali coinvolti, ma anche e soprattutto una serie di frequentazioni con personaggi difficilmente avvicinabili in altro modo.

Milan e Juve: la conquista del Nord Italia

Dopo aver consolidato la loro presenza nel centro-sud, le mafie hanno quindi puntato al Nord Italia e per il radicamento nel territorio gli stadi hanno svolto un ruolo fondamentale come fortini in cui assoldare nuove leve – anche se in “trasferta” l’infiltrazione non è meno intensa che nella squadre del Sud e lo dimostrano le vicende che hanno interessato la curva dei tifosi del Milan. Quest’estate il gruppo Black Devil, capeggiato da Domenico Vottaro aveva tentato di espandersi all’interno della curva e di porsi come leader del movimento. L’intento è stato subito fermato da personaggi vicini alla cosca Papalia affiliata alla ’ndrangheta che hanno ribadito la loro egemonia sulle dinamiche della curva. Una vicenda che fa riflettere, perché mette in risalto quanto potere la mafia si sia costruita a all’interno delle tifoserie del nord al punto da decidere le sorti dei gruppi organizzati.

Ma la vicenda che ha i risvolti più agghiaccianti si rinviene nell’ambito dell’inchiesta che ha svelato l’infiltrazione della ’ndrangheta nelle curve della Juventus, in particolare a Torino come a Napoli ogni gruppo ultrà è espressione di diverse cosche, ma tra queste – tutte di origine calabrese – una in particolare, il gruppo “I Templari” è costituito da esponenti della mafia rumena che da anni si è insediata al Nord e fa affari con la ndrangheta. La comparsa dello striscione dei Templari nella curva della Juventus non è casuale e poco c’entra con il tifo della squadra ma ha un potente significato simbolico e serve a comunicare alla comunità ma soprattutto alle altre cosche che la mafia rumena è riconosciuta dalla ’ndrangheta e che può operare nelle curve così come nel territorio secondo gli accordi previsti. Lo stadio diventa luogo di legittimazione e rivendicazione del proprio ruolo nel territorio ma anche campo dove, sempre tramite striscioni, si celebrano nuove alleanze o si annunciano imminenti faide.

La strategia tra gli spalti

Curva Nostra - Roma fascista

Il business illegale delle mafie nel calcio, raccontato da Federico Ruffo

All’interno dello stadio e nella zona antistante il business illegale delle mafie si compone di tre momenti: la vendita del merchandising falsificato, il bagarinaggio dei biglietti e il calcioscommesse – di cui solo il primo ha generato guadagni per 6,9 miliardi di euro dalla vendita di prodotti contraffatti, con un danno al fisco di  1,5 miliardi di euro l’anno. 

Ci facciamo raccontare questi fenomeni, in primis quello del bagarinaggio, da Federico Ruffo, autore del servizio di inchiesta mandato in onda su Report riguardo i rapporti Juve-‘ndrangheta. «Nel caso della Juve il problema è nato quando in occasione di una semifinale di Champions del 2015, un tifoso svizzero inoltrò una mail alla società in cui lamentava di aver pagato il biglietto 620 euro, a fronte degli 80 ufficiali». A quel punto la Juve stessa non poteva far finta di niente, perché i biglietti ai gruppi ultrà glieli aveva venduti la società per poi farglieli rivendere a un prezzo più alto. Così risale ai boss Dominello. «I modi di “pompare” i biglietti – riprende Ruffo – dipendono dalle esigenze di chi li rivende, e anche dalla partita».

Ma nell’arco di un anno con queste operazioni quanto guadagnano gli ultras? «Una stima assoluta non c’è, ma all’incirca se contiamo che il prezzo medio di vendita è il doppio di quello originale arriviamo a cifre come 1 milione per i Drughi, poco meno per altri due gruppi. Gli ultras vengono aiutati anche dal fatto che lo Juventus Stadium è piuttosto piccolo, lo possono riempire in qualunque occasione, e la gente a causa del sold-out è disposta a prendere i biglietti anche a prezzi superiori». Da quanto va avanti quindi questo giro? A detta di Ruffo è un fenomeno nato con la presidenza Agnelli e l’inaugurazione dello Stadium. «Casi uguali a quello della Juventus ufficialmente non ce ne sono, ma è girata la voce che anche il Milan avesse una vicinanza con clan calabresi e siciliani; fino a pochi anni fa si lasciavano da parte circa 3.000 biglietti riservati alle giovanili rossonere, un numero esagerato e inquietante. Sponda Napoli invece i tifosi hanno fatto il bello e il cattivo tempo prima dell’arrivo di De Laurentiis, che ha scelto poi di non avere nessun rapporto con loro. Il problema reale della vicenda Juve è che la società sapeva perfettamente che aveva a che fare con criminali». Il sospetto è in alcuni casi che le società aiutino consapevolmente gli ultras e le mafie a fare soldi. «Le dirigenze sono ben felici di fare accordi con loro per una semplice ragione di pace: altrimenti i gruppi si coalizzano per comportarsi in maniera violenta e razzista, costringendo così le società a pagare la responsabilità oggettiva. Dal punto di vista economico è più vantaggioso accordarsi con gli ultras che pagare le multe».

Calcioscommesse, le partite truccate di Atalanta, Bari e Crotone

Il terzo grande business illegale è il calcioscommesse, che ha sconvolto il nostro paese con la vicenda di Calciopoli ma che possiamo riepilogare tramite tre episodi significativi. Il caso più clamoroso si registra a Bari, dove si scopre che nel 2011 il difensore Andrea Masiello, autore di un autogol nel derby col Lecce, si era venduto la partita. Anche stavolta c’entrano gli ultras. Spiega Ruffo: «Quando oramai si capì che la squadra era destinata a retrocedere gli ultras fecero irruzione nello spogliatoio consigliando caldamente ai giocatori di non impegnarsi a vincere perché loro dovevano rientrare dei soldi».

È un po’ diverso il caso dell’Atalanta, venduta dai Ruggeri a Percassi proprio perché la società era stretta in una morsa dagli ultras. La nuova gestione era fortemente pressata dalla frangia estrema dei tifosi per risalire in Serie A, e proprio in quei mesi capita che il capitano Doni compra tre partite decisive per la promozione. Paga tutto di tasca sua? «Il giocatore, che ha confessato il crimine di fronte alla giustizia, nega qualsiasi coinvolgimento della società. E continua a ricevere lo stipendio. Nello stesso periodo è arrivato dal Bari all’Atalanta proprio Masiello, e mentre gioca coi nerazzurri finisce sotto inchiesta per il derby Bari-Lecce. L’anomalia è che a lui, diversamente dal compagno di squadra, lo stipendio non glielo paga nessuno».

Un terzo caso particolarmente inquietante lo troviamo a Crotone, dove c’è una forte infiltrazione mafiosa che arriva però direttamente alla società senza passare per i tifosi. Il presidente del Crotone è Raffaele Vrenna, proprietario della più grande discarica di tutta la Calabria ed indagato per concorso in associazione mafiosa. «Il presidente è cugino di Luigi Bonaventura, un pentito della cosca dal medesimo nome e figlio illegittimo di un boss, che per anni lavorò per la società del cugino come addetto alla sicurezza. Decisosi a collaborare più tardi con la giustizia, confidò che in realtà aveva il ruolo di combinare le partite».

Questi i casi più eclatanti che vedono il coinvolgimento di tutti: dalle società e i presidenti fino ai calciatori, tutti collusi con la criminalità organizzata.

Lo striscione: il titolo nobiliare dell’oligarchia mafiosa

Parimenti all’utile economico, le associazioni di stampo mafioso colgono nell’ambiente dello stadio un potente veicolo di consenso sociale. Infatti se il business consente alla criminalità organizzata di nutrirsi, l’aspetto legato a un beneplacito nella malavita permette a queste agenzie del crimine di evolversi.
Dentro le strutture calcistiche questo tema si può descrivere attraverso un tracciato ideale che partendo dalle curve giunge fino ai piani societari più elevati. A metà strada s’intersecano gli strani rapporti che legano tali criminali con i calciatori beniamini del pubblico. Un clan mafioso riesce così a svilupparsi ovvero mutare il proprio status sociale, essere rispettato dalle altre componenti delinquenziali e dettare legge. 

La carovana dell’illegalità esordisce nelle curve, concepite in teoria come i settori più romantici del calcio. Purtroppo l’infiltrazione mafiosa rende tale immagine, una mera concezione idealtipica di curva. Quest’ultima diventa il luogo di iniziazione di una determinata cosca mafiosa che si affaccia nella realtà calcistica. Sono luoghi circoscritti dove raramente si può far sentire la propria voce se non si possiede un elevato quoziente criminale. Soprattutto il cerchio si stringe maggiormente notando che ciascuna fazione demarchi il proprio appezzamento di curva attraverso l’arma dello striscione. Anche in questa circostanza viene meno il romanticismo del quale questo manifesto sportivo dovrebbe essere portatore.
Ne risulta che i clan si radicano nello stadio allo stesso modo di come si dividono il territorio circostante. Emblema della potenza sprigionata dai mafiosi delle curve da stadio diventa dunque lo striscione, strumento utilizzato dai malviventi come apparato comunicativo. Esemplare, in questo senso, è stata la vicenda sviluppatasi allo stadio San Paolo di Napoli in una domenica sportiva della fine di maggio del 2009. Dal punto di vista tecnico era andata in scena una partita dai risvolti privi di significato mentre le azioni passate agli atti avvennero al di fuori del rettangolo di gioco dove si era assistita ad una rara pace armata tra le due curve del tifo partenopeo, laddove risulta ora fondamentale descrivere in primis la divisione territoriale esistente nel luogo del tifo azzurro. Infatti la curva A e la curva B dello stadio napoletano sono feudi appartenenti a determinati esponenti dei quartieri della città sui quali incombe l’ombra di famiglie mafiose in rivalità fra loro.
L’incipit dell’episodio in esame è insito nella relazione problematica che Ezequiel Lavezzi, uno dei giocatori più rappresentativi della squadra dell’epoca, aveva avuto con la società. Tuttavia “El pocho” – questo il suo soprannome – ha potuto contare nei suoi anni napoletani su un amico alquanto discutibile, Antonio Lo Russo il famoso ex boss del clan dei “capitoni” di Secondigliano colto indisturbato in più occasioni a seguire le partite della squadra direttamente da bordo campo nonostante il suo periodo di latitanza sarebbe esordito nei giorni seguenti. Il nocciolo della questione viene toccato proprio nel momento in cui si scopre che Lavezzi avesse chiesto un aiuto mediatico all’amico boss per attrarre i tifosi dalla propria parte e ripudiare la dirigenza. Lo Russo sarebbe riuscito nell’ardua impresa di porsi come figura super partes riuscendo a mediare su due curve, espressione di due realtà geo-criminali in opposizione, attraverso un armistizio temporaneo concretizzato nell’esposizione di due striscioni che presentavano un testo comune. Così “Il pocho non si tocca” è diventato il risultato di come un messaggio semplice, apparentemente privo di malizia e atto a sottolineare l’affezione verso un giocatore che si desiderava continuasse la sua avventura con la squadra, si era trasformato, nella cruda realtà, in una tregua tra cosche mafiose.

La dialettica calciatore-criminale

L’amicizia Lavezzi-Lorusso getta le basi sulla relazione pericolosa fra le figure del mondo dello sport e del mondo dell’illegalità. Questa liaison può essere giustificata considerando i benefici che essa trae ad ambe le parti. Il calciatore viene assistito dal potente amico criminale che riesce a veicolare gli atteggiamenti della parte più passionale della tifoseria, mentre il capo ultrà mafioso acquisisce consenso sociale nell’ottica dei vari clan e subisce un’ascesa al potere. Diviene singolare ma non superfluo scoprire che il meccanismo di adescamento dei personaggi sportivi da parte dei soggetti alieni avviene attraverso degli eventi organizzati ad hoc come feste in discoteca, cene di squadra o addirittura raccolte fondi tese all’incontro delle due realtà prese in esame. Inoltre si deve porre l’accento anche sull’indole sanguigna di determinati atleti che amano stringersi con il tifo organizzato e respirare l’aria caotica delle curve. In passato hanno destato abbastanza clamore mediatico le foto ritraenti Leonardo Bonucci, che ha colto reiteratamente l’occasione di assenze forzate dal rettangolo di gioco per seguire alcune partite immergendosi tra gli ultras juventini. Fino a qui poco male. La situazione degenera quando l’atleta incontra i desideri del mafioso e non del semplice tifoso. Questa casistica è per il calcio un’ulteriore problematica della quale tenere conto mentre è per il mafioso uno step successivo nel cammino verso il potere politico e sociale. Attraverso la prestigiosa conoscenza, il pregiudicato acquisisce potere nella struttura societaria della squadra e rispetto nella rete mafiosa. La suddetta relazione tra El pocho Lavezzi e Antonio Lorusso, cioè tra calciatore e camorrista, non è un unicum nel contorto romanzo calcistico-criminale, anzi è una tra le molteplici. Restando nel capoluogo campano vi sono altri calciatori che hanno dato sfogo a questa dialettica con esponenti della malavita napoletana. Degne di citazione sono le frequentazioni tra i giocatori Pepe Reina, Paolo Cannavaro e Salvatore Aronica con un’unica figura interlocutrice che si è rivelata essere la famiglia Esposito. Appartenente all’omonimo clan, la famiglia è nota alle cronache per copiose attività sospette tra le quali la gestione del centro scommesse “Eurobet” di piazza Mercato intestato a un soggetto terzo per eludere controlli finanziari e per dedicarsi ad attività di riciclaggio e reinvestimento di proventi delittuosi. Di fatto lo scorso maggio i tre professionisti sono stati deferiti, rei nei loro anni di carriera trascorsi a Napoli di aver stretto dubbiosi legami con la camorra, nello specifico con i fratelli Esposito. Va comunque aggiunto che ancora prima del provvedimento notificante i fatti sopracitati, la Società Sportiva Calcio Napoli ha indetto nuove norme che proibiscono agli atleti di intrattenere relazioni confidenziali con specifiche aree del tifo organizzato. Sotto questo aspetto forti novità sono state introdotte dall’arrivo del presidente Aurelio De Laurentis che ha dettato un cambiamento radicale delle politiche su questa specifica tematica anche alla luce delle precedenti condotte alquanto controverse adottate dalle amministrazioni antecedenti l’era dell’odierno proprietario. Ancora tanti sarebbero i casi sui quali potersi soffermare e chissà quanti sono ignoti all’opinione pubblica. Di certo attraverso questa ondata di attività illecite e questa marea soffocante, che partendo dalle curve poco alla volta si alza fino a sommergere le più alte tribune d’onore, lo tsunami mafioso sta distruggendo un fenomeno nazional-popolare tanto amato quanto discusso.

Lo schema nel territorio

Da boss a presidente, il calcio che ricicla l’immagine della mafia

«Tu non devi essere, come dire, temuto. Devi essere voluto bene, che è diverso». Queste parole del boss siciliano Nino Rotolo, intercettato nel 2005, aiutano certamente a comprendere una delle motivazioni che spingono le mafie ad entrare nel mondo del pallone. È il consenso il fulcro attorno a cui ruota l’azione delle mafie. Senza di esso, come sosteneva Paolo Borsellino, la mafia “svanirebbe come un incubo”.  L’appoggio dei cittadini porta ad una legittimazione sociale e quindi al controllo del territorio e all’accrescimento del potere mafioso. L’evoluzione delle mafie negli ultimi anni sembra seguire letteralmente questo schema tracciato da Rotolo: abbandonare la strategia stragista, che ha insanguinato l’Italia alla fine del secolo scorso, limitando l’uso della violenza e di conseguenza anche l’impatto sull’opinione pubblica. È una mafia silente, che senza creare scalpore riesce così ad addentrarsi nell’economia e a radicarsi sul territorio.  

E cosa c’è di meglio, per costruire il consenso, che amministrare la squadra locale e portarla alla vittoria? 

Investimenti, vittorie e promozioni fanno sognare i tifosi e accrescono la popolarità e il supporto nei confronti di chi amministra la squadra. E quando a gestire la società è un soggetto legato ai clan tutto ciò si trasforma in consenso sociale e quindi accettazione da parte della società. È il caso, ad esempio, della Mondragonese, società campana militante in serie D gestita in prima persona da Renato Pagliuca reggente del clan di Mondragone e scampato alla retata che nel 1991 smantellò la cosca. Pagliuca attraverso il club casertano persegue un duplice obiettivo: contatti con amministratori pubblici e imprenditori e, appunto, la creazione di un ampio consenso della comunità. Investendo i soldi del clan nella squadra riaccende la passione dei tifosi con piani di crescita precisi e un calciomercato da favola culminato con il tentativo di acquisto di Toninho Cerezo, centrocampista brasiliano che con la Roma vinse due coppe Italia perdendo la finale di Coppa Campioni nel 1984. Costruisce così, domenica dopo domenica, la sua immagine di modello di successo e accresce il suo potere criminale e, grazie a questa legittimazione sociale, Pagliuca riesce ad addentrarsi nei salotti cittadini dai quali sarebbe rimasto altrimenti escluso. Ne approfitta dunque per stringere relazioni con esponenti del mondo politico ed imprenditoriale. Proprio allo stadio Pagliuca riesce ad “avvicinare” Mario Landolfi, parlamentare casertano e futuro ministro del governo Berlusconi nel 2005, al quale avrebbe proposto “un consistente aiuto elettorale in cambio dell’intervento sulle vicende giudiziarie di Augusto La Torre”, boss del clan di Mondragone finito in carcere. Pagliuca, attraverso il suo ruolo nella società calcistica, acquista dunque una posizione riconosciuta da tutti come autorevole. Ed è proprio questa posizione di prestigio ad elevarlo ad uno status sociale di vantaggio rispetto ad altri attori. 

«Se per assurdo fosse costretta a decidere se sacrificare il profitto o il potere, la mafia sceglierebbe senz’altro di sacrificare il primo» (in “L’impresa Mafiosa” di Nando dalla Chiesa). È noto come al primo posto tra gli interessi delle organizzazioni mafiose, ancora prima del profitto, vi sia proprio il potere: esso è il prius logico che consente alla mafia di controllare il territorio e di portare avanti i propri affari. La mafia infatti, altro non è che una specifica forma di esercizio del potere, fondata su una altrettanto specifica e solida visione delle relazioni sociali, un potere prolungato nel tempo, violento e anticostituzionale ma tollerato per complicità o rassegnazione.

Le mafie hanno colto l’opportunità offerta, comprendendo la centralità di quelle squadre nella vita di paese e trasformandole in strumenti nelle mani dei clan. È quello che è accaduto per diversi anni in Calabria, a Rosarno. Nel feudo della ’ndrangheta dove tutto è nelle mani della famiglia Pesce ed anche la locale squadra di calcio è finita in questa rete criminale. La cosca ha ben presto capito quanto fosse importante investire nella Rosarnese, non solo per gli indubbi profitti economici che poteva trarne, ma anche e soprattutto perché il calcio porta consenso sociale aiutando a ripulire l’immagine criminale del presidente. Anche i giocatori possono poi tornare utili al piano criminale del clan, come ha dichiarato il pentito Salvatore Facchinetti infatti “il calcio serve ad allargare le conoscenze. Hai un problema per della droga da consegnare? Il giocatore di fuori avrà pure un amico o un parente pulito”.

Riciclaggio e il Pizzo 2.0

Una delle ragioni principali per cui le mafie decidono di investire nel mondo del calcio è sicuramente il riciclaggio. Ripulire il denaro proveniente da affari illeciti è una delle maggiori preoccupazioni della criminalità organizzata e la spinge a penetrare settori dell’economia legale. Immettono denaro sporco in un circuito legale sfruttando ogni debolezza del sistema ed ogni spazio lasciato dalla legislazione, e, come detto, il mondo del calcio è sicuramente uno dei settori più fragili. Le leghe dilettantistiche si prestano a tale scopo non essendo richieste per questa alcuna forma particolare di società nè formalità contabili, fiscali o di bilancio. Oltre al riciclaggio del denaro, il business attivo delle cosche si muove su due fronti: il calciomercato e le sponsorizzazioni. Il primo si fonda su di un mercato, quello del trasferimento dei calciatori, che non ha regole. La valutazione economica di un calciatore è estremamente discrezionale e permette di gonfiare i prezzi dei cartellini per trasferire o ricevere, tramite vie legali, ingenti somme di denaro.

Ma il business più “rivoluzionario” è quello della sponsorizzazione alla squadra come nuova frontiera della riscossione del pizzo. Praticamente le mafie invece di riscuotere ai commercianti il pizzo direttamente in contanti, che riporta al problema del riciclaggio, obbliga i proprietari a “chiedere” sponsorizzazioni alla società calcistica, nello stadio o sulle divise dei calciatori, che venivano chiaramente concesse a prezzi esorbitanti, in questo modo le cosche mettono l’importo ricevuto a bilancio della società ed immessi direttamente nelle vie legali. Basti pensare che nel marzo del 2010 la compagine calcistica del Giuliano, provincia di Napoli, è stata sequestrata perché la proprietà imponeva ai commercianti del paese la sponsorizzazione della squadra e il pagamento della pubblicità effettuata nello stadio di una marca di caffè distribuita dal clan in regime di quasi monopolio nel territorio d’influenza.

Dilettanti allo sbaraglio!

Purtroppo un detto antico ma ancora in voga poiché terribilmente esatto recita che al peggio non c’è mai fine e anche nel nostro caso rappresenta la triste realtà. Infatti, sebbene si tenda a puntare lo sguardo sull’intreccio tra il calcio ai suoi massimi livelli e la sua immensa corruzione, la componente mafiosa trova la sua maggiore linfa vitale in realtà minori, più intime e meno sottoposte alla focosa lente dell’opinione pubblica. Il riferimento è rivolto esplicitamente nei confronti della Lega Nazionale Dilettanti (LND) nella quale sono avvenuti fatti al limite del grottesco che testimoniano l’essenza dei proventi economico-sociali che la mafia può ricavare interagendo con l’ambiente calcistico. I motivi parziali dei citati introiti sono da indicare nella precaria struttura che possiedono le società dilettantistiche. Queste molto spesso sono facilmente conquistabili dalle organizzazioni mafiose che trovano soggetti disposti a vendere la società. Una modalità ancora più semplice si verifica quando accade che una squadra fallisca, dato esageratamente elevato nel nostro calcio, e lo stesso club venga rilevato da gruppi sospetti. Oltretutto gli anticorpi dettati dalle normative vigenti non garantiscono massima sicurezza, anzi permettono a chi realmente amministra una squadra di dichiarare quello che più conviene. Infatti una società dilettantistica viene controllata per la regolarità dei pagamenti e non sufficientemente rispetto la provenienza di essi. Perciò succede che quando dei malviventi entrano in possesso di un gruppo sportivo per gli organi di controllo competenti sono proprietari come altri. È tragicomico sostenere che la normativa a riguardo avvantaggia chi dovrebbe svantaggiare. Quando le associazioni sportive si trasformano in associazioni a delinquere si comprende come l’intero sistema abbia fallito. L’acquisizione della mafia di una realtà socio-economica fondamentale come è la squadra di pallone, soprattutto per una ristretta comunità locale può trainare quest’ultima al fallimento.

Ognuno ha le sue responsabilità oggettive

Che si tratti della serie A oppure del campionato interregionale campano la mafia concepisce già da tempo gli stadi come una zona franca di illeciti e proventi da esportare all’esterno una volta dentro i meccanismi societari. Proprio con il sopracitato Federico Ruffo, abbiamo cercato di comprendere, da un punto di vista anche normativo, le falle del sistema calcio che hanno portato all’attuale grave situazione e della quale questo focus coglie soltanto alcuni dei tanti aspetti in gioco.

Per quanto concerne le squadre, hanno avuto e continuano ad avere problematiche con le tifoserie organizzate, un punto di svolta ideale sarebbe una potenziale riforma della legge sulla responsabilità oggettiva. Infatti il movente sino ad ora più palese che ha costretto la società juventina a mediare con i gruppi ultrà è rappresentato da una conseguenza paradossale risultante dalla legge stessa: l’amministrazione societaria ha l’incombenza sul comportamento dei tifosi. Viene così smentito il principio del “chi sbaglia paga” perché a pagare sono le squadre, alle quali conviene allora scendere a compromessi con il tifo organizzato.

Questa situazione paradossale si sarebbe potuta evitare se si fosse subito revisionata la normativa vigente ma, per una questione tutta italiana, le battaglie politiche hanno preso ancora una volta il sopravvento causando un immobilismo interno agli organi competenti in materia quali FIGC e Lega Serie A. Nemmeno i governi che nel tempo si sono succeduti hanno trovato spazio nella loro agenda per queste tematiche. Secondo il nostro intervistato «la verità è che lo stato ha abdicato già da tempo, quando con la legge Pisanu si è deciso che parte della sicurezza si appaltasse alle squadre per applicare un taglio di risorse e costi». «Purtroppo non è stata la scelta ottimale – continua Ruffo – perché sarebbe stato forse necessario trovare un accordo diverso che prevedesse il pagamento da parte delle squadre di tasse extra che andassero a finanziare l’ordine pubblico». Nella realtà dei fatti l’ultimo provvedimento da parte di un governo risale a ormai 10 anni fa, troppo tempo se pensiamo a tutto ciò che è successo negli anni a seguire. Era il lontano 2009 quando una direttiva dell’allora Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, istituiva la peraltro discussa tessera del tifoso: da quel momento il vuoto più fragoroso. Sono cambiati i governi, le presidenze della FIGC e i consigli delle leghe ma tra fare del bene o del male si è scelta l’opzione peggiore, non fare nulla. Questa indifferenza governativa aiuta soltanto i tifosi del crimine che possono continuare indisturbati nei loro business milionari.

Invece i tifosi del calcio rischiano una disaffezione progressiva condizionati dalle azioni che avvengono fuori dal terreno di gioco. «Se vogliamo continuare a raccontare il calcio dobbiamo rimboccarci tutti le maniche: politici, forze dell’ordine, dirigenti e anche noi giornalisti, che abbiamo privilegiato in questi anni il racconto dell’epica o della tragedia sportiva meno quello del fango. Altrimenti rischieremo di raccontare un calcio dove neanche più l’erba è vera, la dipingono di verde per non rovinare lo spettacolo».

Con i contributi di

Ettore Iorio
Ettore Iorio

Redattore

Emanuele Caviglia
Emanuele Caviglia

Redattore

Pierluigi Lantieri
Pierluigi Lantieri

Redattore