Malik è arrivato in Italia del Senegal 30 anni fa, da allora ha lavorato in fabbrica e poi aperto una partita Iva come commerciante di vestiti e oggetti africani in un mercato a Bari. Allo scadere del suo permesso di soggiorno inizia quello che lui definisce in modo forte come “periodo di schiavitù senza diritti”, viene fermato a Macerata e fatto recludere nel CPR di Bari. Descrive il centro di reclusione come un “manicomio degli anni ‘50” e racconta di un business di persone che gestiscono le strutture di reclusione per ricevere fondi. Esistono posti in Italia dove persone come Malik, a cui scade il permesso di soggiorno, o persone che arrivano nel nostro paese in cerca di asilo o rifugio vengono trattate in modo disumano e degradante.
In politica dei Centri di Permanenza per i Rimpatri si parla poco. Il cono d’ombra è anche e soprattutto informativo: non v’è possibilità di avere accesso a dati precisi e informazioni sui casi specifici, e questi luoghi sono descritti dunque attraverso sporadiche testimonianze. Si dà spesso per scontato che dopo l’arresto di migranti irregolari si passi direttamente al rimpatrio, ma in mezzo c’è un passaggio gestito poco e male, un posto dove vengono perpetrate quotidianamente violazioni dei diritti umani: in mezzo ci sono i CPR.
In Italia, un migrante può essere considerato “illegale” per diversi motivi: per avervi fatto ingresso senza un idoneo titolo, per non avere un permesso di soggiorno valido e per aver ricevuto un definitivo diniego della domanda di protezione internazionale. Se sussiste almeno una di queste condizioni il migrante è passibile di un decreto di espulsione e verrà portato in un CPR. Questo luogo, dunque, nasce come anticamera dell’espulsione: è la riva dell’Acheronte su cui sostare in attesa del rimpatrio nel proprio Paese (che per molti migranti, dopo il sogno del paradiso europeo, rappresenta l’inferno). A volte, i migranti irregolari trattenuti potrebbero esser stati denunciati per il reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”, ma questo non ha alcuna correlazione diretta con il loro trattenimento nel CPR (se non, come detto, generare il conseguente provvedimento di espulsione).
La nascita dei CPR e la loro non-evoluzione
Se c’è un episodio esplicativo per la nascita del sistema dei CPR in Italia è senz’altro lo sbarco di ventimila migranti albanesi giunti nel 1991 al porto di Bari con la cosiddetta “nave dolce”. Nella confusione istituzionale e nel pieno dell’estate all’italiana, la maggior parte di queste persone viene stipata nello stadio della città, in attesa di visibilità umana e di riconoscimento che andasse al di là della scelta disperata che avevano compiuto. Così, nell’incertezza sul da farsi riguardo alla presenza di migliaia di persone straniere in territorio pugliese, si diede il via allo scellerato progetto della detenzione amministrativa. Con la legge Puglia del 1995 vengono istituiti i primi centri di accoglienza (CDA), dai quali però non si può uscire.
Se il concetto di “accoglienza” era ambiguo e a tratti surreale, lo sviluppo di queste strutture nel corso degli anni si è rivelato fallimentare assecondando solo la propaganda politica della “lotta all’immigrazione” a destra così come a sinistra. Nel 1998, durante il governo D’Alema, viene approvata la legge Turco-Napolitano, con cui si normalizza la pratica della detenzione amministrativa nei, così chiamati, Centri di Permanenza Temporanea (CPT) per un massimo di 30 giorni nel momento in cui non era possibile il respingimento alla frontiera, l’espulsione o l’identificazione. Il 1998 è l’anno in cui il cittadino italiano, inconsapevolmente, diventa complice di un sistema incapace di tutelare e accogliere degli irregolari sul suolo italiano, senza dare loro nessun tipo di chance.
Durante il secondo governo Berlusconi e con la legge Bossi-Fini, le caratteristiche della detenzione amministrativa si inaspriscono: i tempi di permanenza si allungano e vengono istituiti i Centri di Identificazione (CDI) per trattenere, in primis, chi come Malik era irregolare su suolo italiano, ma anche chi aveva inoltrato una richiesta di domanda d’asilo. Dal 2005 in poi, l’Italia si ritrova a recepire diverse direttive europee riguardo alla tematica che tendono a trasformare e rimodellare queste strutture: ci saranno i Centri di Primo Soccorso e Accoglienza (volti ad una accoglienza emergenziale di al massimo 48 ore per gli appena sbarcati), i CDI che diventano Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA), ed i controversi CPT che si brutalizzano diventando Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Inoltre all’accompagnamento coatto già in uso come tecnica di espulsione, si aggiunge anche il paradossale “rimpatrio volontario”. Con la legge Minniti-Orlando del 2017 si arriva alla definizione di Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Al loro interno, persone come Malik subiscono un periodo di vera e propria detenzione senza aver diritto ad un processo.
Che tipo di struttura detentiva?
L’ordinamento italiano e quello delle Corti Sovranazionali considerano la reclusione all’interno dei CPR come un’extrema ratio: una soluzione estrema per l’espulsione di Malik e tutti gli altri individui extraeuropei senza permesso di soggiorno e documenti e che hanno quindi commesso un illecito amministrativo.
“Se non ci sono metodi alternativi, come lasciare il Paese in maniera autonoma, questi individui vengono condotti in queste strutture che sono di fatto dei parcheggi”, spiega a Scomodo l’avvocato Gennaro Santoro dell’Associazione Antigone e consulente della CILD, “e che non hanno niente a che fare con l’accoglienza. A mio avviso queste strutture andrebbero totalmente superate”. In questo “parcheggio” di privazione della libertà i reclusi come Malik si trovano in una condizione “nulla”, in attesa di un’identificazione e in seguito di un rimpatrio, che di fatto non si sa se, quando e come avverrà. La collaborazione con i Paesi d’origine non è scontata e più emergono problemi burocratici, più tempo i “detenuti” scontano una pena dovuta ad una irregolarità amministrativa, e non a causa di un reato, il cui provvedimento non può essere neanche considerato una vera e propria sanzione.
Il trattenimento nei CPR è giustificato solo per il tempo strettamente necessario ad eseguire il provvedimento di espulsione, e in ogni caso non superiore a 180 giorni. Tuttavia nei fatti ci sono persone che, a causa di continue proroghe del trattenimento iniziale, rimangono detenute in questi luoghi anche più di un anno, senza alcuna possibilità di eseguire il provvedimento di espulsione. Infatti, i costi di un rimpatrio, non solo economici, sono altissimi. Esso inoltre dovrebbe essere effettuato nelle forme dell’accompagnamento coatto, con lo Stato tenuto a eseguirlo con un volo charter e ogni migrante accompagnato da due agenti di pubblica sicurezza. Ciò può avvenire solo se ci sono degli accordi bilaterali tra i Paesi coinvolti. L’Italia ne ha stipulati solo quattro: Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria, oltre al terribile memorandum con la Libia. La mancata collaborazione con molti altri Paesi renderebbe illegittimi quasi tutti i trattenimenti nei CPR.
Le differenze con gli istituti penitenziari non riguardano esclusivamente i motivi della reclusione, ma anche l’organizzazione dei luoghi. Anche se equiparabile ad una detenzione penale, il trattenimento nei CPR riguarda il diritto amministrativo, e quindi non prevede le garanzie che il diritto penale riserva agli imputati e ai detenuti. Sono i Giudici di Pace a convalidare o prorogare i trattenimenti, e dovrebbero garantire un controllo giurisdizionale sull’espulsione e su ciò che avviene all’interno di queste strutture. Nel concreto, questo controllo risulta essere solo formale, e non va a sindacare realmente l’operato delle autorità amministrative coinvolte. “I CPR costituiscono un buco nero!”, dice a Scomodo l’avvocato Gennaro Santoro. “Si fa difficoltà a reperire le informazioni e ridottissima è la corrispondenza interna con il mondo esterno, non essendo una detenzione penale”.
La società civile non ha accesso a queste strutture fatiscenti, e i reclusi sono lasciati a loro stessi in cameroni affollati, senza poter far appello ad operatori civili la cui presenza è ritenuta fondamentale nei penitenziari. L’Associazione dei Giuristi per la difesa dei diritti fondamentali spiega a Scomodo che non essendo sulla carta i CPR luoghi di detenzione l’uscita all’aria aperta dovrebbe essere disponibile ogni qualvolta un soggetto voglia accedervi. Spesso, però, persistono limitazioni arbitrarie.
La vita all’interno dei CPR non è disciplinata: le giornate non sono scandite da attività lavorative, scolastiche o di socializzazione e anche per i pochi individui fortunati, che riescono ad ottenere un permesso di soggiorno, non esiste nulla che faciliti o programmi il reinserimento sociale, invece teoricamente previsto per chi proviene da strutture detentive. Emblematico è il fatto che l’assistenza sanitaria di un certo livello, di cui godono gli istituti penitenziari, in questi centri è mancante e l’emergenza del Covid-19 non ha influito minimamente sulle condizioni di reclusione. La pandemia, come già noto per i casi carcerari, costituisce un rischio ancor maggiore per tutte le strutture chiuse al mondo esterno e affollate. Tuttavia, i CPR continuano a lavorare a pieno regime anche se la legittimazione del rimpatrio in questo momento è pari a zero. Non solo i trattenuti continuano ad essere reclusi per un fine al momento non attuabile, ma gli arresti sono proseguiti determinando costanti arrivi di nuovi soggetti.
Servizi al ribasso
Se il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno dei centri è di competenza delle forze di polizia, l’erogazione dei servizi primari per i detenuti è affidata a enti privati individuati dalle Prefetture competenti con un concorso al ribasso, premiante l’offerta economicamente più vantaggiosa. Le competenze e i requisiti minimi, in termini di expertise, che devono avere gli aggiudicatari sono senz’altro molto specifici, trattandosi comunque di ruoli delicati che prevedono il relazionarsi con persone private della libertà: tuttavia, tra le varie aziende o cooperative al momento incaricate di gestire i CPR, non è facile individuare un denominatore comune a causa dell’eterogeneità dei contesti da cui esse provengono. Gli enti gestori, infatti, spaziano da aziende come GEPSA (Torino), avente in gestione anche numerose carceri private in Francia, quindi in teoria esperta nell’ambito della detenzione, a cooperative come Versoprobo (Milano, CPR in via di apertura) che si occupano di erogare servizi primari in diversi Centri di Accoglienza Straordinaria, abituate quindi a interfacciarsi con stranieri e richiedenti asilo, ma di certo non in contesti di restrizione della libertà personale.
A fornire delle linee guida per la gestione pratica dei CPR c’è un Regolamento prodotto nel 2014 dal Ministero dell’Interno, preceduto unicamente dalla direttiva Bianco del 2000 e da una Circolare del 2002 che individuavano delle linee guida con lo scopo di fornire un modello standard, per quanto riguardava i costi e le prestazioni minime da erogare. Come ricorda a Scomodo il Garante Nazionale delle persone private di libertà, “le norme che regolano la privazione della libertà delle persone, ai sensi dell’articolo 13 della costituzione, devono essere leggi di rango primario”. Nonostante ciò, non esiste a oggi un Codice inequivocabile e avente il valore di legge che normalizzi l’amministrazione dei CPR. Il documento del 2014, infatti, non è mai stato sottoposto al vaglio parlamentare.
Il Regolamento pone senz’altro delle garanzie fondamentali per i trattenuti; la sua natura poco vincolante, però, compromette la loro effettiva tutela. Nel suo Rapporto del 2018 sulle visite effettuate nei CPR di Torino, Brindisi, Palazzo San Gervasio e Bari, il Garante Nazionale dichiara infatti di aver riscontrato numerose inosservanze del Regolamento, oltre che vere e proprie violazioni dei diritti umani. Queste ultime sono dovute, in parte, a carenze strutturali: molti dei CPR sono risultati deficitari di una mensa (i trattenuti erano costretti a mangiare nei luoghi di pernottamento) o di servizi igienici adeguati a soddisfare le necessità degli ospiti. Inoltre, nonostante debba essere garantita la salute psicofisica dei trattenuti, risultano quasi inesistenti servizi di assistenza psicologica e mediazione culturale, entrambi estremamente importanti in un contesto dove l’isolamento (linguistico, sociale, culturale) unitamente alla disperazione provata nel veder fallire il proprio progetto migratorio tendono a facilitare l’insorgere di episodi di violenza o l’utilizzo di mezzi come scioperi della fame o autolesionismo per far valere i propri diritti. Il Garante riporta infatti che, assicurando una concreta erogazione dei servizi di supporto e migliorando le condizioni di vita all’interno dei CPR, si ridurrebbero i livelli di stress nelle strutture con conseguente decremento delle manifestazioni di protesta che, stando a quanto riporta Gervasa Pantalone nella risposta al Rapporto del Garante, sono le cause stesse delle scadenti condizioni in cui versano i CPR nonché le ragioni per cui gli Enti gestori sono in molti casi “costretti” all’inadempienza. Se, invece che istituire protocolli di sicurezza estremamente limitanti ai fini di agire sulle manifestazioni di una vulnerabilità esacerbata da condizioni di vita degradanti, si agisse concretamente sulle ragioni alla base di questa condizione si potrebbe uscire dal circolo vizioso che condanna i diritti dei trattenuti a rimanere nell’ombra.
Nonostante nel Rapporto si invitino le Prefetture di competenza ad attivarsi per far fronte alle numerose carenze, il Garante dichiara che la situazione è rimasta a oggi pressoché invariata, anche a causa del fatto che “i cambiamenti in questo campo sono molto lenti e faticosi”; alla difficoltà di miglioramento connaturata alle circostanze legate alla detenzione stessa si aggiunge il fatto che con il Decreto Sicurezza si sono ulteriormente ridotti i fondi destinati alle strutture, con il risultato che la già striminzita proposta di attività per i trattenuti è stata ulteriormente risicata.
Poiché l’espulsione dal territorio dovrebbe essere l’epilogo di un trattenimento nei CPR, la natura delle modalità di detenzione non ha alcuna ricaduta sulla società. Questa infatti non risente di un’eventuale espansione delle criticità e delle vulnerabilità dei trattenuti, causata da condizioni di vita denigranti né beneficia di eventuali progetti di sviluppo della persona.
I brillanti risultati del Decreto Sicurezza
Con la legge Minniti-Orlando oltre al nome cambia il numero di giorni in cui si può essere trattenuti, ridotto a 90. Vengono previste strutture nuove che dovrebbero essere “di piccole dimensioni, con governance trasparente e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti”, ma il risultato complessivo è sempre un sistema poco dissimile e poggiato sulla mancanza di diritti per i detenuti. L’avvocato Emanuele Ficara dell’associazione StraLi – Strategic Litigation di Torino conferma l’aspetto deteriorante di queste strutture spiegando che, già dopo un anno dalla loro prima istituzione, i centri si dimostrano inadeguati a garantire condizioni di vita decenti e spesso scoppiano rivolte e tentativi di fuga tra i trattenuti.
L’attenzione va posta, ovviamente, sul “Decreto Sicurezza e Immigrazione” del 5 ottobre 2018 dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, finora l’ultima legge che ha modificato i CPR. Viene eliminato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, previsto dal Testo Unico sull’immigrazione, e al suo posto il decreto introduce una serie di permessi speciali per protezione sociale nel caso di sfruttamento o violenze subite, per particolare merito civile, per problemi di salute o per chi proviene da un paese che si trova in una situazione di “contingente ed eccezionale calamità”.
Viene ampliata la categoria dei reati la cui commissione annulla la richiesta di protezione internazionale, includendo violenza sessuale, spaccio, furto e lesioni aggravate a pubblico ufficiale. Per quanto riguarda le strutture per l’accoglienza e per il rimpatrio, vengono raddoppiati i giorni massimi di trattenimento nei CPR da 90 a 180 e viene meno lo SPRAR, il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati, il cui ruolo viene pesantemente ridimensionato nonostante il parere di molti avvocati e associazioni operanti nel settore. L’accesso agli SPRAR è dato solo ai solo titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati.
A distanza di più di un anno, si può osservare che se l’obiettivo del Decreto Salvini era quello di ridurre il numero di migranti irregolari sul territorio, il risultato è stato esattamente l’opposto. Da un giorno all’altro anche persone “regolari” per anni in Italia si sono ritrovate sostanzialmente prive del diritto di rinnovare il proprio permesso.
Chi subentra per garantire diritti
A fronte di una condizione critica, non sono poche le persone che decidono di impegnarsi ogni giorno per denunciare le violazioni dei diritti umani che avvengono nelle diverse fasi della gestione delle politiche di immigrazione.
Francesca Mazzotti, attivista sarda della rete di solidarietà nazionale LasciateCIEntrare racconta a Scomodo che “la rete è nata nel 2011 quando Maroni, allora Ministro degli Interni del governo Berlusconi, fece passare un’ordinanza per impedire l’ingresso degli addetti stampa nei centri di accoglienza, violando esplicitamente la libertà di stampa. Il primo obiettivo della rete è stato proprio di far abrogare l’ordinanza e attorno a questa battaglia si sono radunate molte associazioni, gruppi e singoli attivisti”. Francesca sottolinea che “la lotta per la difesa dei diritti umani non si è fermata e, ad oggi, sono presenti nella rete, associazioni da tutta Italia; non mancano i contatti internazionali per supportare o denunciare dislocazioni di migranti tra stati europei”. La rete agisce facendo pervenire all’interno del centro un numero di SOS attraverso il quale vengono raccolte le segnalazioni provenienti da operatori e detenuti; gli attivisti cercano quindi di ottenere autorizzazioni ad entrare e di fornire assistenza legale, nonché prove delle situazioni di disagio denunciate. Quando riescono ad ottenerle le inoltrano alle autorità competenti, le quali negli anni, come spiega Francesca a Scomodo, si sono dimostrate però sempre meno recettive. Gli attivisti della rete solidale organizzano raccolte di beni di prima necessità da poter fare entrare dentro i centri, dove i servizi sono spesso molto scadenti e ai reclusi come Malik non sempre vengono assegnati degli effetti personali igienicamente sostenibili. Dai centri, gli attivisti hanno raccolto diverse testimonianze di distribuzione di psicofarmaci tra i reclusi che spesso li prendono per disperazione con il ben volere del personale, che ha tutto l’interesse a impedir loro di ragionare lucidamente sulla loro condizione e a disincentivare solidarietà e coscienza politica tra i detenuti. Numerosi attivisti confermano a Scomodo la pratica di sottrarre i cellulari ai reclusi o di rompere la telecamera prima di rinchiuderli. Questo avviene poiché la legge Turco-Napolitano, che tutela il diritto dei reclusi a comunicare con l’esterno, fa riferimento al contesto della fine degli anni ‘90, quando bisognava garantire che i reclusi potessero accedere ai telefoni pubblici.
Oggi la legge risulta anacronistica ed il risultato di questa incongruenza temporale è che ai reclusi come Malik viene consegnata una scheda telefonica da circa 10 ore con cui dovrebbero parlare con avvocati, famiglia, conoscenti e con cui se contattano i numeri di SOS, di solito, hanno modo e tempo di fare una sola domanda: “Come faccio ad uscire?”.
Malik dovrà tornare in Senegal dopo trent’anni e dove, dice “quasi nessuno mi conosce veramente”. Racconta di aver sempre inviato parte dello stipendio a casa, ma lui si sente “integrato in Italia”. Malik non è considerato un cittadino italiano e probabilmente non lo diventerà mai. Ma non sappiamo se Malik dopo 180 giorni sia davvero uscito dal CPR per tornare in Senegal: potrebbero aver allungato la reclusione in attesa dei documenti. Di sicuro ha chiuso la sua partita Iva e, dice, “non si dimenticherà mai delle atrocità viste nel CPR di Bari”.