Contro i CPR: il caso di Bologna

Bologna si oppone all'apertura di nuovi CPR, mostrando possibili alternative

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Sulle note di “Ouvrez les frontières”, sabato 14 ottobre un corteo di migranti, attivisti, studenti, bolognesi e non, ha sfilato per il centro di Bologna per dire no all’apertura dei CPR (Centri per i Rimpatri) in Emilia Romagna e altrove. Organizzato dai municipi sociali locali Labàs e TPO, centri di attivismo e servizio sociale organizzati dal basso e presenti nella periferia e nel centro di Bologna, la manifestazione ha raccolto adesioni da tutta la regione e da associazioni come Refugees in Libya, Refugees Welcome Italia ETS e Mediterranea Bologna.

I CPR, ossia «luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione», come recita la definizione ufficiale, sono già stati al centro di numerose inchieste per via delle condizioni disumane in cui si trovano i migranti lì trattenuti. In Italia, la questione sull’accoglienza migranti si è riaccesa a fine settembre dopo gli arrivi consistenti a Lampedusa, e in quei giorni il Ministro dell’Interno Piantedosi ha dichiarato che per gestire la crisi dei migranti a livello nazionale è necessaria la presenza di un centro CPR per regione (al momento ce ne sono 10 in tutta Italia). L’Emilia-Romagna, che al momento non ne ha, si è contrapposta al governo proponendo invece un rafforzamento del sistema di assistenza diffusa. 

Bologna contro i CPR

Le associazioni bolognesi sono in prima linea contro la volontà governativa di aprire il CPR sul territorio. A fine settembre, Mediterranea Bologna ha organizzato insieme ad altri collettivi locali un presidio sotto la prefettura per denunciare le condizioni di vita disumane dei CPR e ribadire la propria opposizione alle istituzioni a livello nazionale. Anche a livello locale, pur non essendoci un CPR, la gestione dell’accoglienza migranti non è rosea: gli attivisti dei municipi sociali Labàs e TPO hanno recentemente denunciato la situazione del CAS di via Mattei, un Centro di Accoglienza Straordinaria ad oggi sovraffollato anche a causa del decreto Cutro, secondo il quale i richiedenti asilo non possono più essere accolti dalla rete di accoglienza diffusa. Al momento, in via Mattei si trovano più di 800 persone su 250 posti disponibili: una testimonianza del 6 ottobre riporta che le persone sono ammassate in tende e stanze fino a 60 persone, l’assistenza medica manca e il cibo distribuito non è a sufficienza per tutti. 

Il centro ospita chi è in attesa di poter formalizzare la richiesta d’asilo, un’attesa che tiene bloccati da mesi centinaia di migranti a causa dei ritardi della burocrazia. A questo proposito, il 24 ottobre gli attivisti locali, le avvocate di ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), e i membri dell’associazione Ya Basta sono stati ricevuti dal questore Isabella Fusiello e dalla dirigente Elena Jolanda Ceria dell’Ufficio Immigrazione. Mentre si svolgeva l’incontro, alle porte della questura si teneva un presidio di attivisti e migranti del CAS di via Mattei per rimarcare l’urgenza di trovare una soluzione. Tra le richieste avanzate dalle attiviste alla questura, l’apertura straordinaria degli uffici nei fine settimana, l’attivazione di un tavolo di confronto con altre istituzioni come Prefettura e Comune, e l’aumento di personale all’Ufficio Immigrazione. A questo proposito, le dirigenti hanno affermato che nelle prossime settimane una decina di lavoratori verrà assunta dall’Ufficio Immigrazione. Gli attivisti si dicono soddisfatti dell’incontro, ma assicurano che la mobilitazione dei municipi sociali con gli abitanti del CAS continuerà e invitano il Comune di Bologna a monitorare l’accesso alle misure di accoglienza dei richiedenti asilo.

A settembre, il sindaco Matteo Lepore affermava che a Bologna ci fossero 1000 migranti in più di quelli previsti e invitava il governo ad una migliore distribuzione, mentre l’assessore al welfare Luca Rizzo Nervo sottolineava che a livello governativo mancasse la trasparenza sui numeri degli arrivi, causando inefficienza a livello locale ed estremi sovraccarichi per il CAS di via Mattei. A fronte di questo sovraffollamento, l’11 ottobre il prefetto di Bologna Attilio Visconti ha affermato che ad inizio novembre sarà pronto un nuovo CAS presso l’ex-Caserma Gamberini di Ozzano dell’Emilia, che il prefetto ha dichiarato ospiterà “alcune decine di migranti, al massimo un centinaio”. In un video girato dai municipi sociali Labàs e TPO presso la caserma, gli attivisti denunciano che la struttura porti avanti logiche di emarginazione trovandosi lontano dai centri abitati, e temono che si creino le condizioni per una nuova tendopoli. Ad oggi, sul retro della caserma stanno già comparendo i primi prefabbricati. Gli attivisti ribadiscono: “queste soluzioni non ci appartengono e noi le rifiutiamo”.

Bologna ha una lunga storia di lotta alle istituzioni rispetto alla questione dell’accoglienza migranti. Nel 2014, i municipi sociali bolognesi avevano protestato contro la riapertura del centro di via Mattei, che ai tempi era un CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione), in via di riapertura dopo lavori di riadattamento in seguito alla chiusura di maggio 2013.  Nel 2023, per contrastare le politiche portate avanti dal governo e ribadire il no ai CPR, l’attivismo locale è in movimento. Il 30 settembre i municipi sociali bolognesi hanno organizzato un’assemblea pubblica nei pressi del CAS di via Mattei e un pranzo sociale il sabato seguente, portando attenzione alla situazione locale e organizzando la manifestazione che si è svolta lo scorso sabato 14 ottobre. 

Giulia Sezzi, un’attivista dei municipi sociali, ha sottolineato in un’intervista a Scomodo che l’obiettivo è quello di coinvolgere soprattutto chi viene oppresso nei CAS con l’aiuto di attivisti di realtà extra europee come la rete Refugees in Libya e lo stesso Patrick Zaki, cittadino onorario di Bologna e presente alla manifestazione di sabato 14 ottobre. Mentre il corteo sfilava nel centro di Bologna, alcuni degli stessi migranti hanno preso il microfono per raccontare le realtà di questi centri, dal sovraffolamento, alla scarsa igiene, alla mancata assistenza medica, e soprattutto all’attesa di mesi per ottenere un appuntamento in questura e formalizzare la richiesta di asilo. A fronte di queste condizioni, a settembre anche l’assessore al welfare Rizzo Nervo ha sottolineato di essere fermamento contro i CPR in quanto non solo sono inefficienti ma violano i diritti umani. L’attivista Giulia Sezzi afferma che «la frattura che si sta aprendo tra la volontà del governo e quella della regione è un luogo dove le lotte dal basso possono spingere».

La situazione a livello nazionale

A livello nazionale, infatti, la visione della gestione dell’accoglienza è ben diversa. Oltre all’istituzione di un CPR per ciascuna regione, il governo, con il decreto del 14 settembre 2023, prevede il versamento di una somma di 4938 euro nel caso in cui il cittadino migrante non volesse essere trattenuto all’interno di una di queste strutture. Rispetto a questo provvedimento, a fine settembre si è creata una tensione con il tribunale di Catania, che non ha convalidato il trattenimento di tre migranti ritenendo il decreto in contrasto con la normativa europea. Trattenimento la cui durata massima è stata aumentata fino a 18 mesi con il decreto n.124 di settembre 2023. In realtà, è stato evidenziato come la correlazione tra i tempi di permanenza nei CPR e la possibilità di rimpatrio di un migrante sia inversa: più tempo si trascorre nel CPR, più bassa è la possibilità di essere effettivamente rimpatriato. 

Non solo, ma l’estensione della permanenza massima non permetterebbe un ricambio all’interno dei centri, che rischiano il sovraffollamento: infatti, ad ottobre 2022 risultavano esserci in Italia 10 CPR per un totale di solo 619 posti effettivamente fruibili. Va inoltre ricordato che l’Italia al momento non possiede reali accordi di rimpatrio per i migranti con gli stati di provenienza, l’unico realmente attivo quello con la Tunisia. Tra il 2020 e il 2022 è stato rimpatriato il 50 per cento circa dei migranti che sono transitati nei CPR, di cui il 60% appunto in Tunisia. Di conseguenza, come afferma Giulia Sezzi, il piano sui rimpatri del governo italiano è «non solo distopico, ma anche utopico.»

 L’inefficienza di questi centri viene accompagnata delle condizioni disumane di permanenza negli stessi: i centri non hanno un sistema di regolamentazione interna, con conseguente mancanza di conoscenza ed esercizio dei propri diritti. Secondo CLID (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili), i cittadini stranieri presenti nei CPR sono persone spesso già inserite lavorativamente nel Paese, che perdono il permesso di soggiorno a seguito della perdita del lavoro. Giulia Sezzi dei municipi sociali bolognesi ricorda che i CPR detengono persone che non hanno commesso alcun reato, le quali in caso di mancato rimpatrio sono poi rilasciate senza documenti e in stato di irregolarità. 

A maggio 2023, un agente delle forze dell’ordine ha denunciato la grave situazione del CPR in via Corelli a Milano, già evidenziata a dicembre 2022 dagli stessi detenuti: nel centro vengono somministrati psicofarmaci in modo massiccio e indiscriminato, e si sono registrati atti di autolesionismo e presenza di malati che necessiterebbero assistenza medica strutturata. Niente di nuovo: già nel 2021 il suicidio del 23enne della Guinea Moussa Balde al CPR di Torino aveva acceso i riflettori sulla mancanza di umanità di questi luoghi, come raccontato da Scomodo. 

Una soluzione?

I CPR però non rappresentano l’unica alternativa. A Bologna, la proposta dall’amministrazione locale e dalle associazioni è quella di basarsi sul sistema di accoglienza diffusa, anche per sopperire al grave sovraffolamento dei centri di accoglienza straordinaria come quello di via Mattei. Il sistema di accoglienza diffusa SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) o SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) è attivo ufficialmente dal 2002. Ad oggi, la rete SAI può accogliere per legge richiedenti di protezione internazionale, minori stranieri non accompagnati, stranieri affidati ai servizi sociali, e anche titolari dei permessi di soggiorno in protezione speciale (ad esempio violenza domestica o sfruttamento lavorativo). 

Infatti, a differenza dei CPR, i centri di accoglienza diffusa sono organizzati su base volontaria dagli enti locali: ad agosto 2023, c’erano 925 progetti attivi a livello locale, dei quali la maggior parte si trovano in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Il sito della rete SAI riporta che questo sistema garantisce interventi di accoglienza integrata «attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico», come ad esempio percorsi di apprendimento della lingua italiana.

Quindi, i CAS statali come quello di Bologna in via Mattei dovrebbero essere misure emergenziali da prendere temporaneamente se non ci dovessero essere abbastanza posti nei centri di accoglienza diffusa SPRAR. Il problema è che in seguito al Decreto Sicurezza del 2018, lo SPRAR non può più accogliere i richiedenti asilo, che vengono confinati ai CAS e privati delle misure per il reinserimento sociale, essendo garantiti solo di vitto e alloggio. Nei CAS statali rimangono quindi coloro che devono far richiesta della domanda d’asilo, la quale, con l’abolizione della protezione umanitaria dello stesso decreto, viene rifiutata nella maggior parte dei casi: di conseguenza, la maggior parte delle persone viene portata a cadere nell’irregolarità. In generale, in Italia le strutture di carattere emergenziale come i CAS e i CPR sono la norma: nel 2019, la presenza di cittadini migranti nei centri di accoglienza diffusa SPRAR è arrivata ad essere attorno al 20%, mentre negli altri centri di accoglienza come i CAS si raggiungeva quasi l’80%. 

In un’intervista a La7 di maggio 2021, il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello sosteneva che il fenomeno delle migrazioni in Italia era considerato emergenziale dal 1993, mentre la vera emergenza doveva essere cercata nella gestione del sistema di accoglienza. L’attivista Giulia Sezzi dei municipi sociali bolognesi ricorda che il problema principale è proprio il fatto che il sistema di accoglienza diffusa sia stato progressivamente smantellato, a favore dell’incrementazione di un approccio emergenziale: «io non so come andrà a finire la situazione», afferma, «quello che è chiaro è che le persone continuano ad arrivare. C’è bisogno di un’accoglienza diffusa e degna, anche se ormai l’accoglienza diffusa non basta più»: infatti, il «diritto alla città per tuttə» è la sfida che i municipi sociali bolognesi lanciano, per ricordare alle istituzioni dei diritti di tutti i cittadini, dai migranti agli studenti ai lavoratori.

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