Confusione energetica

Cosa non funziona delle politiche di transizione energetica

Da più di venticinque anni il mondo intero si trova ad essere preda di una strana schizofrenia: i leader delle nazioni più potenti e i dirigenti delle multinazionali energetiche si dichiarano preoccupati per il fenomeno del riscaldamento globale e disposti a investire pienamente nelle fonti di energia rinnovabile, per poi smentire coi fatti le loro dichiarazioni. Dimostrando quanto una transizione da un’economia energetica basata sui combustibili fossili a una basata sulle rinnovabili sia sempre più utopica. Mentre il pianeta sembra essere a rischio, la direzione presa è sempre più confusa.



LA MINACCIA

L’origine

Con l’avanzare dei secoli, l’ambiente ha risentito sempre di più in negativo dell’intervento umano: in particolar modo dal XIX secolo (situazione aggravatasi dopo il 1950), i combustibili fossili sono diventati sempre più cruciali nella vita di ogni giorno provocando numerosi danni. Infatti, sfruttando queste risorse (limitate) si è andati incontro a un degradamento della situazione ambientale causato dall’inquinamento e dall’effetto serra: per questo motivo molti Paesi del mondo si sono dati l’obiettivo di contenere le emissioni di anidride carbonica, la principale causa di quest’ultima grave problematica. Di fatto i combustibili fossili emettono numerosissime emissioni di gas serra, di cui il principale responsabile è il carbone (50% delle emissioni di CO2); a seguire il petrolio che – data la posizione dei pozzi di estrazione – è responsabile, tra le altre cose, dell’inquinamento delle acque e della scomparsa di diverse specie marine; per ultimo vi è il metano. 

Il cambiamento climatico ha avuto inizio più di un secolo fa ma è stato accelerato dai gas serra e la gravità del fenomeno è confermata da moltissimi studi che hanno rilevato che nel 2016 la temperatura risultava di 1.1°C superiore rispetto alla fine del XIX secolo. Se questa cifra può apparire irrilevante perché apparentemente bassa, bisogna considerare che nell’ultima era glaciale la temperatura della Terra era inferiore di soli 4°C rispetto alla fine del XIX secolo. Si stima infatti che luoghi come l’Artide, entro il 2040, potrebbero essere totalmente privi di ghiaccio, mentre in Antartide i ghiacciai si scioglieranno sempre più velocemente provocando ulteriori innalzamenti del livello del mare – già aumentato di circa 20cm nell’ultimo secolo – che potrebbe salire di altri 68 cm entro il 2100, inondando isole e le coste più basse (come ad esempio l’italiana Venezia).

La superficie di mare ricoperta dai ghiacci al Polo Nord si è ridotta del 10% negli ultimi decenni e lo spessore del ghiaccio del 40%.

Tutto ciò ha portato allo stravolgimento di molte catene alimentari, oltre che alla migrazione di numerose specie autoctone dei poli, da vari animali marini a diversi tipi di insetti – alcuni dei quali sono responsabili della diffusione di malattie tropicali (come la malaria) fino in Europa. 

D’altra parte, scarseggia l’acqua dolce in molte zone del mondo e la situazione peggiorerà, con stime che prevedono un ulteriore innalzamento delle temperature fino a 5.8°C entro il 2100.

25 anni di vuoto

Le politiche e le misure per la riduzione dei gas serra si sono dimostrate fallimentari e ciò è dovuto a 25 anni di accordi pienamente disattesi. Nel 1992 si tenne a Rio de Janeiro una delle prime iniziative riguardanti il cambiamento climatico, la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, cui partecipano le delegazioni di 154 nazioni. La conclusione fu la stesura della United Nations Framework Convention on Climate Change che entrò in vigore solo nel 1994. Questo documento sottoscriveva l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera, in funzione dei recenti studi sul riscaldamento globale. La convenzione però – pur trovandosi ad affrontare una gravosa situazione – non presentava alcun vincolo per le nazioni firmatarie. Cinque anni dopo, l’11 dicembre 1997, venne approvato il Protocollo di Kyoto una delle più importanti manovre politiche a lungo termine sul climate change, che pose le basi per l’Accordo di Parigi del 2015. Il Protocollo entrò in vigore solo nel febbraio del 2005, in seguito alla ratifica da parte della Russia nel 2004: la vigenza infatti poteva essere applicata solo dopo la ratifica da parte di almeno 55 nazioni firmatarie che complessivamente producessero almeno il 55% delle emissioni gas serra globali di origine antropica. I paesi firmatari furono 160, compresi gli Stati Uniti d’America, che sebbene siano responsabili di circa il 36% delle emissioni globali di CO2, si ritirarono dall’Accordo di Parigi nel 2017 (accordo che come già accennato trova le sue basi proprio nel Protocollo di Kyoto) per volere del presidente Donald Trump. La finalità principale del Protocollo di Kyoto era quella di arrivare ad una riduzione significativa delle emissioni di gas climalteranti rispetto ai livelli registrati nel 1990 (un calo del 5,2%). All’arrivo della scadenza ci fu un prolungamento dell’impegno, con l’approvazione dell’Emendamento di Doha, in cui venivano sanciti un secondo periodo d’impegno dal 2013 al 2020, l’aggiunta del trifluoruro di azoto all’elenco dei gas serra e un necessario rafforzamento unilaterale degli oneri delle singole parti. L’obiettivo per il 2020 è quello di riuscire a limitare le emissioni del 20% rispetto alla stessa baseline del Protocollo di Kyoto.

Ridefinizioni

Le crepe e le carenze della politica precedente si riscontrano nella Conferenza dell’Aja, che rappresentò proprio il carattere scarno e superficiale delle misure prese fino a quel momento in quanto ad obblighi e termini vincolanti. Tutto ciò emerge nel contrasto tra la delegazione delle Nazioni Unite e gli Stati Uniti. I nuclei del conflitto furono la concreta attuazione degli obiettivi prefissati per i paesi in via di sviluppo e le dinamiche da affrontare in caso di mancato adempimento ai termini. Terminò in un fallimento e con l’immediata uscita degli Stati Uniti dal Protocollo di Kyoto. Quattro mesi dopo la dipartita degli americani i paesi firmatari del Protocollo si riunirono a Bonn per ratificare delle misure ancor più flessibili e facilmente evasive.

In vista della scadenza del 2012, nel 2005 a Montreal fu necessaria una nuova ridefinizione di obiettivi, questa volta vincolanti, un tentativo di consolidare un piano già esistente di meccanismi dello sviluppo pulito. Esemplare anche la conferenza a Nairobi nel 2006 con l’obiettivo fallimentare di coinvolgere i paesi africani nel protocollo. Con l’avvicinarsi del 2012 i paesi firmatari – ancora lontani dall’obiettivo prefissato – decisero di riunirsi nuovamente a Copenhagen nel 2009 con l’intento di creare un dialogo tra i massimi esponenti dell’economia mondiale: gli Stati Uniti e la Cina, con il contributo dell’India, del Brasile e del Sud Africa. Da questo incontro ne conseguì un accordo sottoscritto dall’UE che prevedeva di contenere di 2°C l’aumento della temperatura media del pianeta e un ulteriore impegno economico di 30 miliardi di dollari l’anno tra il 2010 e il 2012 e 100 miliardi di dollari a partire dal 2020 da parte dei paesi industrializzati, con il proposito di creare un equilibrio con i paesi in via di sviluppo. Trattati, protocolli, e conferenze costruiti sulla retorica dell’economia pulita che finirono per non avere alcun risultato significativo, forse per via del disinteresse e alla mancanza di chiarezza nella stesura dei termini vincolanti e delle conseguenze per il mancato conseguimento delle normative entro la scadenza prevista. Nel 2013 si raggiunge il culmine quando a Varsavia le ONG interrompono i lavori per protesta contro l’evidente penuria di responsabilità ed impegno nella politica per uno sviluppo sostenibile. L’accordo oggi vigente è quello raggiunto a Parigi il 12 dicembre 2015, con l’intento di limitare l’incremento della temperatura entro i 2°C, obiettivo già prefissato, che però non era stato portato a termine, con l’ulteriore presunzione di abbassarlo a 1,5°C. Questa volta per assicurare la concretizzazione di tale obiettivo i paesi industrializzati hanno garantito l’eroga annuale di 100 miliardi di dollari, sulla quota il contributo italiano al fondo è di 50 milioni di euro all’anno dal 2016 al 2018. Attualmente secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico a fine 2016 sono stati allocati 43 miliardi di dollari, quota nettamente inferiore a quella prefissata. Trovandoci di fronte ad una problematica globale così ingerente e tangibile, che oltre a distruggere il pianeta in cui viviamo manderebbe l’economia mondiale in una crisi da cui probabilmente non potremo riprenderci, perché non si investe in una politica sostenibile?

La prospettiva economica: l'evoluzione del settore energetico

Confusione energetica

La tradizionale produzione energetica

Se il sistema energetico del nostro pianeta si basa, per circa il 70% dei suoi consumi e l’80% della sua domanda, sull’utilizzo di combustibili fossili, lo si deve ad una secolare abitudine collettiva ereditata dalla rivoluzione industriale, ed interamente incentrata sui profitti economici. In quanto principale fonte energetica, i combustibili fossili sono il nucleo su cui oggi stanno ruotando gli accordi commerciali tra le diverse parti del mondo, comportando flussi finanziari capaci di influenzare l’economia mondiale. Petrolio, carbone e gas naturale non sono distribuiti in modo uniforme sulla superficie terrestre: questo comporta, sulla base di un’analisi di costi e benefici, la stipulazione di accordi e relazioni commerciali tra paesi importatori ed esportatori, al punto che tali scambi internazionali si presentano come fattori determinanti sull’attività globale di fornitura e consumo di energia.

Ma cosa accade nel momento in cui la materia prima diventa estremamente limitata, ovvero quando l’offerta è talmente bassa da non poter soddisfare la domanda? Un protagonista come il petrolio sarebbe ancora in grado di influenzare le relazioni economiche mondiali? La risposta è tuttora incerta, ma il parere comune degli esperti vede uno scenario di estrema crisi come reazione ad un effetto domino comprendente vari settori della società, quali i trasporti, la distribuzione di beni primari, la produzione di determinati materiali derivati come la plastica, e non per ultimo il crollo delle certezze sul sistema della produzione energetica. Il dato certo è che ad oggi il consumo di energia mondiale gira attorno agli 8 miliardi di tonnellate di petrolio, il cui andamento del prezzo sembra allinearsi molto spesso con le questioni di natura internazionale del Medio Oriente, un territorio con un’ampia disponibilità petrolifera, ma la cui instabilità politica genera una reazione a catena nel sistema economico e monetario del pianeta a partire proprio dalle oscillazioni del prezzo dell’oro nero, la cui valuta nei mercati internazionali è espressa in dollari.

Nell’utilizzo di questi elementi come fonte principale di energia, l’economia si fa carico dei costi inerenti all’estrazione, lavorazione e distribuzione, a discapito di costi ben più fatali legati all’ambiente, causa dei danni fatti dall’inquinamento globale. Nonostante la consapevolezza di un deterioramento significativo delle risorse naturali, si continua ad essere piuttosto indietro rispetto all’itinerario da percorrere, basti pensare al fatto che gli stessi paesi industrializzati del G20 – tra cui l’Italia – spendono ancora oggi più di 100 miliardi all’anno in sussidi ai combustibili fossili.

La transizione energetica come processo inevitabile

I dati statistici tuttavia ci inducono a pensare che la decarbonizzazione dell’economia mondiale sia un processo ormai irreversibile, e che la transizione energetica possa passare dall’essere un’utopia all’essere necessaria.

Secondo l’agenzia governativa EUROFOND, con il supporto delle analisi effettuate dalla Cambridge Econometrics e la European Jobs Monitor, la transizione comporterebbe degli effetti positivi generali sul Prodotto Interno Lordo europeo e sulla crescita dell’occupazione. In particolare in Italia si avrebbe un effetto positivo sul PIL dello 0,7% e sull’occupazione dello 0,5 % entro il 2030, questo perché il mercato del lavoro saprebbe affrontare al meglio l’evoluzione delle circostanze, grazie alla capacità della forza-lavoro di adattarsi abilmente ai cambiamenti strutturali. Secondo le previsioni, all’interno della cornice europea, i maggiori beneficiari della transizione sarebbero Lettonia, Malta, e Belgio, eventualmente interpreti di una ricostruzione economica basata sugli investimenti necessari per la transizione e sulla riduzione delle importazioni dei carboni fossili, mentre registrerebbe un netto calo dell’occupazione la Polonia a causa del suo ampio settore minerario del carbone.

La tutela del pianeta dalla minaccia del cambiamento climatico comporta inevitabilmente una serie di importanti costi ed investimenti mirati a cambiare dall’interno il modus operandi di Stati, aziende e persone. Forse per questo alcuni paesi si fanno portatori di visioni contrastanti alla tematica della transizione energetica, come la particolare posizione assunta dal leader della Casa Bianca Donald Trump, fermo sostenitore dell’idea secondo cui il petrolio ed il carbone siano i veri fattori determinanti in grado di trainare l’economia degli Stati Uniti ad alti livelli internazionali. Tuttavia, secondo gli studi effettuati da varie agenzie, il processo legato alla transizione energetica, che costerebbe all’economia americana una cifra intorno ai 400 miliardi di dollari l’anno per i prossimi tre decenni, avrebbe degli effetti totalmente positivi. Gli investimenti, che ricoprirebbero tutto il settore della generazione energetica, assicurerebbero dei considerevoli profitti di cui gioverebbe la stessa economia d’oltreoceano, sullo sfondo di imponenti risparmi dovuti al taglio della spesa per i combustibili fossili per una cifra che si aggirerebbe intorno ai 700 miliardi di dollari l’anno, per i prossimi venti anni.

L'economia delle fonti energetiche rinnovabili

La Green Economy sembra essere una realtà imminente, ed in questo contesto giocano un ruolo chiave coloro che permettono l’avanzamento del mercato energetico, tra cui le multinazionali del campo energetico e gli investitori del settore. Consapevoli delle conseguenze intrecciate ai rischi dovuti al cambiamento climatico e incentivati dalle indicazioni provenienti dal panorama politico internazionale, sono sempre di più le aziende che tentano di intervenire correttamente per ridurre le emissioni di CO2, cercando di dare un impulso alla fase di passaggio nell’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabile.

Secondo le stime dei rapporti della BNEF, le fonti rinnovabili sono destinate ad assorbire la maggior parte degli investimenti in generazione elettrica entro il 2040, andando quindi a comprendere più del 70% del denaro complessivo che ruota attorno al mercato energetico. A questo proposito cresce il numero degli investitori la cui linea finanziaria è legata alla misurazione dell’impatto ambientale del proprio portafoglio di investimento; per questo motivo, al fine di sviluppare un’idea imprenditoriale a tutela dell’ambiente, sono piuttosto frequenti i contatti diretti con le aziende a scopo persuasivo, a cui segue, qualora non bastasse il solo strumento del dialogo, l’attuazione di una linea di intervento più dura nel quadro delle azioni di mercato, portando molti interpreti a non investire più nelle società che operano in modo incessante nel campo dei combustibili fossili.

Secondo l’azienda Climate Bond Initiative, l’emissione di Green Bond è lievitata di quasi l’80% lo scorso anno, rispetto al 2017, con un flusso di 155 miliardi di dollari totali, grazie soprattutto ai mercati degli Stati Uniti, della Cina e della Francia. Con il termine Green Bond si indicano le cosiddette “obbligazioni verdi” la cui emissione è legata a progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente, come l’efficienza energetica, la produzione di energia da fonti pulite, l’uso sostenibile dei terreni e via dicendo.

Su questa prospettiva comune si concentrano anche le numerose iniziative di istituzioni economiche come banche ed assicurazioni che decidono di diminuire, se non addirittura interrompere, i legami stipulati con le cosiddette “industrie sporche”, termine utilizzato per indicare generalmente l’insieme delle infrastrutture che operano nell’estrazione e nella produzione dei combustibili fossili.

La concretezza del processo di transizione

Va tenuto conto che le ragioni che si celano dietro queste scelte, oltre ad essere ispirate da motivi di natura etica, sono ovviamente mosse da fattori di natura economica: le previsioni di profitto economico mostrano il settore delle fonti energetiche rinnovabili come un campo economico dai tratti sempre più convenienti rispetto a quelli che sono i canoni tradizionali. All’interno di un mercato in continua evoluzione, il mito del costo eccessivo delle rinnovabili sembra ormai confutato da dati certi offerti da vari esperti, tra cui l’International Renewable Energy Agency (IRENA), i cui rapporti confermano che i costi della generazione eolica e dell’energia solare sono in progressivo calo di circa il 75%, al punto da essere realmente competitivi nei confronti delle fonti non rinnovabili, se non addirittura vantaggiosi.

Durante un’assemblea tenutasi ad Abu Dhabi, con i rappresentanti dei governi di 150 paesi, si è tentato di stabilire un programma strategico per svolgere una serie di funzioni con lo scopo di facilitare gli investimenti per la costruzione degli impianti utili allo sfruttamento delle risorse rinnovabili.

I rapporti statistici ci permettono di scoprire che nel corso dell’anno corrente i migliori progetti fotovoltaici ed eolici sono in grado di produrre elettricità al prezzo di circa 3 centesimi di dollaro per kWh (chilowattora), un dato che offre sicuramente uno spunto di riflessione se messo a confronto con l’attuale costo per la produzione di energia tramite combustibili fossili, che varia dai 5 ai 17 centesimi di dollaro per kWh. Con la manifestazione del calo degli standard tariffari, il mercato dell’energia solare ed eolica è attualmente preso di mira da un crescente numero di paesi che puntano sullo sfruttamento delle sue potenzialità, tra questi hanno recentemente raggiunto un ottimo risultato paesi del nord Europa che fin da subito hanno sposato la linea green dell’energia, come Islanda, Norvegia e Danimarca, ma anche altri paesi con ben più distinte caratteristiche economiche come Perù, Emirati Arabi, India e Messico, a cui, tramite un processo graduale, molti altri paesi si stanno lentamente aggregando percorrendone gli stessi passi

La diminuzione dei costi dello sfruttamento delle fonti rinnovabili in rapporto agli eventuali profitti, sono il motore che può permettere l’accelerazione della transizione energetica, ed è per questo che gli investimenti dei privati in base alle circostanze stanno progressivamente cambiando direzione, come verificato dall’aumento di attenzione da parte delle case automobilistiche per l’elettrificazione dei trasporti, o dall’interesse di compagnie petrolifere nell’acquisto di società che operano nel settore fotovoltaico, eolico, nei dispositivi di accumulo energetico e così via.

Resta semplicemente da chiedersi se l’economia globale sarà in grado di condividere in tempo una visione comune sulla concretezza dei profitti ottenibili a lungo termine tramite lo sfruttamento delle enormi potenzialità delle risorse rinnovabili, o se sarà talmente legata ad una visione stagionata così accecante da non permetterle di riconoscere che le vincite economiche immediate potrebbero ben presto rappresentare irreversibili perdite future.

Attori al tramonto, superstar, comparse

Confusione energetica

Il mondo del cinema, a parte Leonardo Di Caprio e il suo attivismo, ha ben poco a che fare con il mondo energetico-finanziario e con i suoi retroscena: un mondo di riflettori contro uno di ombre, segreti e promesse non rispettate e nascoste sotto il tappeto come fastidiosa polvere.

E tuttavia, anche analizzando un fenomeno tanto tecnico come la transizione energetica, è facile trovare delle analogie con il mondo dello show-business. Corporations o intere federazioni di Stati che non contano più nulla da decenni nello scenario energetico-finanziario, nuove potenze che finalmente brillano più della luna nel firmamento dell’energia mondiale e comparse, che nessuno si sforza neanche più di illudere che possano avere un qualche ruolo di peso nel film. E che di ciò sono consapevoli in maniera quasi pericolosa.

Di questo cast abbiamo parlato con chi, nonostante abbia rappresentato nella sua vita alcuni degli attori più importanti, non ha peli sulla lingua quando si tratta di parlare dello scacchiere dell’energia mondiale: Massimo Nicolazzi, firma di punta di presidente della filiale italiana di Centrex (una delle compagnie leader in Europa per importazione e scambio di gas naturale, controllata dalla russa Gazprom) dopo essere stato a.d. della Centrex Europe ed aver ricoperto altri ruoli in Eni e Lukoil. Oltre ad essere la firma di punta di Limes sul tema.

Perché no?

La domanda, quando si parla di transizione energetica, è naturale ed è sempre più pressante ogni anno che passa e in cui non vengono rispettati gli obiettivi che il mondo si è posto a più riprese: perché no? “Perché non è gratis”. Il dott. Nicolazzi non va per il sottile: “I sostituti dei fossili sono, per una serie di ragioni, più costosi e molto meno efficienti. In termini di densità di potenza, ad esempio, con una fonte fotovoltaica riesce ad installare 5 watt al metro quadro contro gli oltre 1000 del ciclo del petrolio o gas. Sicuramente prima o poi Madonna Tecnologia farà il miracolo, ma per ora questo tipo di transizione non è un passaggio facile”. Il che potrebbe non sembrare un ostacolo, vista la posta in gioco: come conferma anche il presidente di Centrex Italia, in ballo non c’è l’esaurimento dei combustibili fossili, ma “la serietà della minaccia del riscaldamento globale e dell’inquinamento atmosferico”. E tuttavia, sicuramente le emissioni derivanti dagli stessi combustibili fossili non andranno a diminuire: “Il primo problema è che continuiamo a riprodurci come dei conigli. Il passaggio da un mondo di 7 a uno abitato da 9,5 miliardi di persone vedrà come conseguenza il fatto che le fonti fossili come fonti primarie diminuiranno in percentuale, ma aumenteranno in volume assoluto”. Un passaggio graduale, ovvero l’unica prospettiva possibile con l’attuale assetto economico: “ancora non siamo in grado di utilizzare fonti rinnovabili per lavorazioni ad alto contenuto termico. L’acciaio col sole e col vento ancora non si fa”. La transizione sarebbe quindi problematica in ogni caso. Ma a questa situazione si è arrivati, soprattutto, grazie a politiche inadeguate di attori non più brillanti.

Lifting

“La linea europea è quella dell’autoflagellazione. Ci poniamo degli obiettivi che ci mettono fuori mercato e poi ci inventiamo dei meccanismi di sopravvivenza per le nostre industrie più inquinanti”. Il ritratto è quello di un attore sulla via del tramonto che tenta disperatamente di farsi bello. Ma che nel tentativo, non fa altro che peggiorare la situazione. “Le acciaierie in Europa sono praticamente esenti dal doversi procurare permessi di emissione. Lo fanno per evitare che si trasferiscano altrove – che è stato alla fine il fenomenale risultato di Kyoto: portare le acciaierie in Cina. E per salvare le ultime acciaierie rimaste, l’Unione Europea sta andando contro gli stessi obiettivi che le hanno messe fuori mercato”. 

In tutta Europa, infatti, anche gli stati più “virtuosi” stanno dando vita a un vero e proprio circolo vizioso: e quindi non si parla solo delle miniere di carbone in Polonia, ma persino della Germania, dove “si continuano ad aprire miniere di lignite”. Un disastro ecologico che spingerebbe anche i più fiduciosi a domandarsi se la strada intrapresa sia quella giusta: “Se gli esperti di riscaldamento globale hanno ragione con le loro stime, agli obiettivi di Parigi per il 2050 si arriverebbe solo con sudore, lacrime e sangue. C’è ancora una distanza enorme tra la curva che vede gli obiettivi e quella che vede le proiezioni delle politiche attuali per veleggiare verso la transizione.”

“Se parliamo di inquinamento parliamo di fenomeni locali: ma le emissioni nell’atmosfera sono un fenomeno globale che ci ostiniamo a trattare come stati nazionali”. Nicolazzi usa lo stesso esempio in maniera efficace: “E’ così che succedono cose ‘buffe’, come un Paese che si deindustrializza perché non è più competitivo a causa delle restrizioni. E’ ovvio che l’acciaio, inquinando di più, lo produco spendendo meno”.

Le luci della ribalta

E mentre sull’Europa cala il sipario, sono altri a fare la differenza rubando del tutto la scena. 

Che la Cina sia la nuova potenza economica per eccellenza è ormai a chiaro a tutti. L’impatto che ciò può avere, forse, un po’ meno. “Nel 2017 il mondo ha registrato un calo del 7% negli investimenti sulle fonti di energia rinnovabile. Ed è tutto derivato dal fatto che in Cina si sia staccata la spina ai sussidi: gli investimenti alle energie rinnovabili sono aumentati in tutto il mondo, ma in Cina sono talmente crollati da portare il dato mondiale in un rosso notevole”. E’ bastato premere un tasto, e la transizione ha subito una battuta d’arresto notevole: “Non si è capito bene perché, forse per far fare ai propri produttori dumping nei confronti degli Stati Uniti o per altro, ma hanno tagliato in tronco i fondi al fotovoltaico”. La politica cinese, infatti, è stata quella dell’importazione del gas naturale: nello stesso anno dello “shutdown” che ha riguardato il fotovoltaico, il consumo di gas naturale al livello mondiale è aumentato del 3%, ovvero di 96 miliardi di metri cubi, la crescita più rapida dal 2010, e la produzione del 4%, pari a 131 miliardi di metri cubi, stando a quanto affermato da BP (British Petroleum, una delle famose sette “supermajors” multinazionali energetiche, protagonista nel 2010 di uno dei disastri ambientali più devastanti del ventunesimo secolo, il cosiddetto “Deepwater Horizon oil spill”) nella sua review statistica annuale.

E se tale è l’impatto degli investimenti cinesi sulle fonti di energia, c’è poco da star sereni in vista di una potenziale transizione energetica: “La Cina, in teoria, ha un programma di decarbonizzazione che rende benissimo l’idea del processo di transizione che affronteremo al livello mondiale. Passare dall’82% al 60% di energia generata tramite carbone non vuol dire affatto bruciare meno carbone. Fino al 2024 la Cina si è imposta di limitare le emissioni: limitare, non diminuire”.

Comparse

Come in ogni film, sono le star a rubare la scena. E le comparse, nonostante costituiscano la grande maggioranza del cast, hanno un tempo ampiamente limitato sulla pellicola.

Come già detto, la transizione energetica non sarà gratuita. E in molti si scapicollano a trovare modi per finanziarla. Ovviamente, le tasse sono lo strumento privilegiato. E la tassa, in questo caso, si chiama ‘carbon price’. “Se vogliamo introdurre un carbon price, l’energia costerà di più. Un aumento di costo dell’energia derivante dall’uso di politiche, diciamo così, in favore delle rinnovabili, come l’inserire nella bolletta un carbon price o un’altra tassa per colmare i sussidi che lo stato paga a chi ha messo nei propri conti pannelli e turbine, dal punto di vista economico e sociale costituisce l’equivalente di una tassazione regressiva”. La transizione non sarà gratuita affatto: e se il prezzo dovesse gravare tutto sulle spalle di coloro che possono permettersi a mala pena il costo attuale dell’energia?

“Più una persona ha mezzi limitati, ovviamente, più risente di un aumento tariffario. Anche perché oltre un certo limite quelli del riscaldamento e dell’energia sono consumi non tagliabili, altrimenti si parla di vera e propria povertà energetica. Da questo punto di vista, un aiuto mal gestito alla transizione può tradursi in un aiuto all’aggravamento della diseguaglianza sociale”. L’esempio che Nicolazzi ha in mente è ovvio. “Tecnicamente, i gilet gialli sono nati da un aumento di carbon pricing nell’accisa sulla benzina. Che i francesi abbiano detto no al carbon pricing non è un risultato brillante per chi doveva gestire questa transizione”. Altroché: un provvedimento per favorire, in teoria, la transizione alle rinnovabili è andato a creare il più forte dissenso nei confronti di una singola manovra al livello europeo.

“Non c’è nulla che impedisca la messa nel conto dei più ricchi di un intero carbon price, tranne il fatto che non la voterebbe nessuno. Carbon price vuol dire un almeno temporaneo aumento dei costi dell’energia, non mi si venga a dire il contrario. Poi, ripeto, sicuramente si arriverà al miracolo tecnologico, ci sarà l’energia a costo zero e tutte queste meravigliose favole tecnicamente possibili. Ma la realtà, ora come ora, è un’altra”.

Finale a sorpresa?

La BP, già citata in precedenza, nel suo Outlook 2019 sostiene che “il ritmo di penetrazione delle rinnovabili nel sistema energetico globale sarà il più veloce mai osservato nella storia”. Ma allo stesso tempo il CEO Dudley ammette: “conosciamo il risultato, ma non conosciamo il percorso esatto”. Una frase che, se non inquieta, quanto meno instilla il dubbio.

“Tra le righe, il rapporto BP dice che in questo processo conterà più l’aumento di efficienza energetica che non lo spostamento delle fonti”, afferma Nicolazzi. E se la frase in sé risulta innocua all’interlocutore, l’allarme che si sente non è suonato col campanello, ma con la più potente delle sirene. Una non-diminuzione, potenzialmente neanche percentuale, dell’energia tratta da fonti fossili, potrebbe risultare disastrosa a lungo termine.

La transizione energetica dai carboni fossili alle rinnovabili è un film il cui casting è a mala pena iniziato. Un film dal budget per ora limitato, ma dai costi di produzione altissimi. E in pochi, dalle comparse alle superstar, sembrano volervi apparire.

Verso una rivoluzione verde?

Il mondo sta progressivamente evolvendosi verso un diverso modello di sistema energetico, reso necessario dal vicino esaurirsi delle principali fonti di energia fossile e dalla grave condizione di degrado ambientale in cui versa il pianeta Terra. I prossimi 20-30 anni saranno caratterizzati da un progressivo spostamento dell’industria energetica verso l’utilizzo di fonti rinnovabili e gas naturali. I costi di eolico e solare fotovoltaico continuano a diminuire, mentre i prezzi del petrolio hanno superato gli 80 dollari al barile per la prima volta in quattro anni. Il trattato di Parigi, firmato nel 2015, pone come obiettivo quello di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi e compiere sforzi perché rimanga intorno agli 1.5 (obiettivo che peraltro gran parte della comunità scientifica considera minimale). Queste decisioni imporrebbero un cambiamento radicale nelle politiche energetiche, volto a garantire energia pulita a costi accessibili per tutti, che non causi un aumento delle temperature. 

Eppure, dopo tre anni senza variazioni, nel 2017 le emissioni mondiali di anidride carbonica dovute al comparto energetico sono aumentate dell’1,6% e le stime preliminari sembrano confermare un trend di crescita anche per il 2018, deviando quindi consistentemente dalla traiettoria coerente con il conseguimento degli obiettivi sul clima. L’inquinamento atmosferico legato all’energia continua inoltre a tradursi in milioni di morti premature ogni anno. Questo accade perché il consumo energetico dei paesi in via di sviluppo negli ultimi anni sta aumentando vertiginosamente. Non più tardi del 2000, l’Europa e il Nord America costituivano oltre il 40% della domanda energetica globale e le economie in via di sviluppo dell’Asia per circa il 20%: nel 2040 si prevede un’inversione completa di questi numeri. Inoltre l’incremento della popolazione mondiale lascia presupporre un aumento della domanda energetica di oltre un quarto da qui al 2040: 1,7 miliardi di persone che tenderanno ad insediarsi nelle aree urbane di paesi in via di sviluppo come Cina e India.

 

Ma perché temporeggiamo in questo modo? Barack Obama, quando era ancora in carica, si disse molto preoccupato dalla possibilità, estremamente realistica, che il livello del mare si sarebbe alzato notevolmente nel giro di massimo vent’anni (!), sommergendo buona parte delle zone costiere e costringendo una popolazione in crescita in uno spazio ridotto e con ridotte risorse. I climatologi sono d’accordo sul fatto che l’Europa rischia la desertificazione e presto l’Inghilterra avrà il clima adatto per coltivare viti.

Il trattato di Parigi, per quanto attento ad evidenziare problemi e rischi, non è coercitivo, ovvero non prevede sanzioni per i paesi firmatari. Eppure se le industrie energetiche impegnate in una transizione dai carboni fossili verso le energie rinnovabili si ritrovassero a pagare multe per il loro mancato impegno o sovrattasse su ogni vendita di carbone e petrolio ci troveremmo sicuramente in un mondo che viaggia a passo più spedito verso una rivoluzione verde. Invece i cambiamenti ci sono, ma avvengono ad un ritmo lento, che permette alle grandi aziende di continuare a guadagnare sulla vendita di prodotti altamente inquinanti mentre con calma si preparano ad essere competitive per il giorno in cui saranno costretti a vendere energia pulita.

Certo esistono esempi virtuosi. L’industria italiana ERG, nata da raffinatori di petrolio, ha venduto tutti i suoi impianti per dedicarsi interamente all’eolico, che vede evidentemente come un investimento fruttuoso. La Norvegia riesce ormai a produrre quasi tutto il suo fabbisogno attraverso fonti di energia rinnovabile, anche se vale la pena sottolineare che parliamo di un paese molto piccolo e scarsamente abitato, arricchitosi, peraltro, con la vendita del petrolio. Cina e India, nonostante siano di fatto i paesi responsabili del maggior inquinamento nei prossimi anni, si dichiarano molto attive nel tentativo di contenere i consumi energetici. La Cina in particolare è il paese che più di tutti sta investendo nei veicoli elettrici.

 

Ma il continente che più di tutti si sta muovendo per agevolare la transizione al rinnovabile è, a sorpresa, l’America Latina. Costa Rica, Nicaragua, Paraguay ed Uruguay sono ormai prossimi a smettere di utilizzare di combustibili fossili. In particolare si fa interessante l’esempio del Nicaragua che tra sole, fiumi, vento e vulcani è diventato un esempio studiato dagli scienziati europei. Non c’è da sorprendersi che sia tra i soli tre paesi che non hanno firmato il trattato di Parigi: non lo trovava abbastanza ambizioso! Tuttavia è corso a ratificare non appena ha saputo che lo avrebbero accostato all’America di Trump.

Ma come mai il secondo continente più povero del pianeta sta raggiungendo per primo gli obiettivi promossi e divulgati a Parigi? Certo si tratta di paesi piccoli, ricchi di fonti energetiche naturali e scarsamente industrializzati: non hanno certo il fabbisogno dei grandi produttori occidentali. Tuttavia è vero anche che le risorse economiche a disposizione dell’Europa dovrebbero facilmente sopperire a queste difficoltà. Insomma, se il Nicaragua può rendersi quasi completamente indipendente e “pulito” nel giro di dieci anni, come può un paese come l’Italia puntare a raggiungere il 28% nel 2030 ed essere comunque uno dei paesi europei più “virtuosi”? È evidente dunque che lo scarso interesse dimostrato da paesi di aree ricche quali il Nordamerica e l’Europa in una transizione verde è dovuto all’ancora forte presenza di interessi economici legati ai combustibili fossili. Da una parte ci sono certamente gli interessi privati delle industrie petrolifere e della finanza, che trovano la loro massima espressione politica nell’America di Donald Trump, unico paese insieme alla disastrata Siria ad aver ritirato la firma dal trattato di Parigi; dall’altra parte, tuttavia, c’è il fatto che la nostra economia e il nostro stile di vita non si possono permettere un cambiamento così repentino: non si può certo chiedere a un paese intero di buttare la propria macchina per comprarne una nuova, elettrica. Sarebbe poi possibile ricaricare queste macchine? Possiamo disporre di sufficiente energia pulita per mantenerle attive? E per mantenere produttivi i nostri impianti industriali e accesi i nostri telefoni, computer e lampadine? Scrivono Jean-Claude Debeir, Jean-Paul Deleage e Daniel Hemery: “Riorientare il sistema energetico globale significa riorientare la potente dinamica emersa fin dall’inizio della Rivoluzione Industriale. Questa sfida andrebbe affrontata in tutte le sue dimensioni: economica, ecologica, tecnica, politica, culturale e sociale. Non ci sarà cambiamento senza una profonda riforma di come viene prodotta e distribuita la ricchezza nel nostro pianeta.” 

Con i contributi di

Anita Raponi
Anita Raponi

Redattrice

Anna Laura Lozupone
Anna Laura Lozupone

Redattrice

Jhonathan Ruiz
Jhonathan Ruiz

Redattore

Pietro Forti
Pietro Forti

Redattore

Giovanni Onorato
Giovanni Onorato

Redattore