Tra le questioni economiche che riguardano la società, e sono per questo di interesse comune, quella dell’elusione fiscale viene spesso ignorata, e si perde così tra molti altri problemi e temi economici di attualità, riuscendo solo raramente a trovare lo spazio che meriterebbe. Per cercare di capire che cosa rientri nel fenomeno dell’elusione fiscale, questa può essere definita come il comportamento di individui, o più spesso aziende, che, pur non infrangendo la legge, riescono a sottrarsi, anche solo parzialmente, al pagamento delle tasse. Sebbene il fenomeno dell’elusione fiscale riguardi sia individui che aziende, sono quest’ultime a rappresentare il problema più grande, sottraendo ingenti quantità di denaro ai bilanci statali. Anche se, come detto in precedenza, il tema dell’elusione fiscale viene spesso sottovalutato, o può persino risultare sconosciuto ai più, la questione assume tutt’altra prospettiva nel momento in cui si valutano le dimensioni del problema. A livello globale, infatti, i governi perdono annualmente circa 240 miliardi di dollari a causa dell’elusione fiscale condotta dalle multinazionali. In questo modo, i mancati introiti impoveriscono i bilanci degli stati, portando a ripercussioni importanti sulla spesa pubblica e sulla vita delle persone.
Paradisi fiscali e paesi fiscalmente aggressivi
Il primo punto di vista da cui affrontare il problema dell’elusione è quello di chi la incentiva e rende possibile, ovvero i paradisi fiscali e i paesi fiscalmente aggressivi. Sotto la definizione di paradisi fiscali vengono spesso raggruppati sia piccoli paesi esotici come le isole Vergini Britanniche o le isole Figi, sia nazioni decisamente più vicine a noi quali Cipro e l’Olanda. Sebbene le somiglianze tra le loro politiche fiscali siano molte, è più corretto riferirsi agli ultimi due come paesi fiscalmente aggressivi.
La qualifica di una nazione come “paradiso fiscale” può variare a seconda dello stato e identifica luoghi con regimi di tassazione sensibilmente più vantaggiosi di quelli nazionali e con i quali non esistono accordi per lo scambio di informazioni tra i governi. L’elenco dei paesi che rispondono a questi requisiti viene in genere definito “Black List” e sebbene ne esista una a livello europeo, essa può variare da stato a stato: infatti, potendo ciascun governo concludere autonomamente accordi bilaterali con altri stati, l’elenco dei paradisi fiscali può essere diverso nei vari paesi membri. In Italia è l’Agenzia delle Entrate ad essere responsabile della redazione della Black list, che viene continuamente aggiornata. Nel caso venga comunicato o, più facilmente, venga scoperto che un cittadino detiene partecipazioni in aziende con sede in questi paesi, si applica la disciplina della CFC (Controlled Foreign Company), volta a garantire una tassazione anche dei profitti che potrebbero altrimenti sfuggire al fisco italiano.
È invece la stessa Comunità Europea ad aver usato il termine “paesi fiscalmente aggressivi” nei report semestrali (marzo 2019) di sei paesi membri: Olanda, Cipro, Malta, Ungheria, Lussemburgo e Irlanda. La differenza con gli effettivi paradisi fiscali è che in questo caso i regimi di tassazione favorevoli sono garantiti grazie ad aliquote di tassazione più basse, abbattimento della base imponibile grazie a generose deduzioni, ma soprattutto attraverso accordi specifici (tax rulings) conclusi con le stesse aziende che decidono di localizzare la loro sede nel territorio dello stato. Quest’ultima pratica risulta in una considerevole differenza tra l’aliquota statutaria imposta sui profitti delle società e l’aliquota effettiva. Secondo il Tax Heaven Index del 2019, la divergenza percentuale di questi sei stati oscilla tra il 100% dell’Olanda e l’86% di Malta. Questa stortura all’interno dell’UE ha natura normativa: il problema nasce dall’esigenza di garantire, da un lato, un mercato unico e funzionante in cui sia eliminata la doppia tassazione dei redditi e dei capitali e, dall’altro, di lasciare ai singoli stati la competenza in materia fiscale. L’insieme dei due fattori fa si che paesi come l’Italia si trovino costretti a stringere accordi con gli altri paesi europei (tra cui anche quelli fiscalmente aggressivi) per garantire che gli investitori siano liberi di investire in qualsiasi paese membro senza essere penalizzati dalle leggi dello stato di residenza. Portando avanti le loro attività in diverse nazioni ma mantenendo la residenza nei paesi fiscalmente aggressivi le grandi imprese sono così in grado di sfruttare questi accordi a loro vantaggio, affinché le tasse effettive pagate siano quelle della giurisdizione più favorevole.
I regimi fiscali che favoriscono l’elusione
La definizione di paesi fiscalmente aggressivi nasce in realtà dalla pratica appena descritta, definita “pianificazione fiscale aggressiva”, messa in atto soprattutto dalle multinazionali, in cui le scelte di localizzazione e di gestione vengono prese unicamente sulla base dei vantaggi fiscali che ne possono derivare. Queste strategie possono essere incentivate dalle politiche fiscali messe in atto dai singoli paesi e che possono variare moltissimo. L’Olanda, ad esempio, è stata in grado di attrarre holding di multinazionali attraverso l’esenzione fiscale delle plusvalenze di società controllate. In pratica, se la holding di un gruppo viene localizzata in Olanda, i guadagni delle società controllate non verranno considerati nella base imponibile (tassabile). A questo si aggiunge una favorevole disciplina dei tax rulings, che permette alle aziende di concludere accordi con lo stato olandese per stabilire con certezza l’imposizione fiscale (spesso favorevole) a cui saranno sottoposte. Il piccolo stato di Malta ha deciso invece di adottare una strategia leggermente diversa per attrare i capitali: l’aliquota societaria di base che viene imposta è pari al 35%, ma dopo che l’utile (netto di tasse) è stato distribuito agli azionisti, a questi spetta il rimborso di 6/7 delle tasse pagate sul reddito commerciale.
Tra i paesi fiscalmente aggressivi ci sono sia stati di ridotta estensione (Malta, Cipro o il Lussemburgo), ma anche territori più ampi (Irlanda, Olanda e Ungheria). In generale quello che accumuna questi paesi è la necessità di attrarre investimenti stranieri per favorire la crescita dell’economia e, soprattutto nel caso dei paesi più piccoli, anche di garantirsi un adeguato gettito fiscale per far fronte alla spesa pubblica. Guardando agli investimenti diretti esteri in percentuale al Pil in questi sei paesi, i dati Eurostat mostrano un’evidente sproporzione: stiamo parlando del 180% nel caso del Lussemburgo, rispetto a valori sotto il 10% per gli altri paesi europei. Ciò indica che per questi stati il gettito fiscale è una componente importante dell’economia nazionale. Tuttavia, il fatto che vi siano delle regole così profondamente diverse all’interno del mercato europeo rende la competizione non equa e conferisce ai paesi fiscalmente aggressivi un notevole vantaggio.
Il vantaggio competitivo
Attraverso i meccanismi di elusione fiscale le multinazionali sono in grado di spostare più profitti possibili verso paesi a tassazione più bassa, sottraendo così base imponibile agli altri paesi europei.
Un effetto importante di questa stortura è il vantaggio che viene garantito ad imprese di maggiori dimensioni e con presenza in più stati rispetto alle imprese domestiche, generalmente più piccole e ovviamente meno influenti. Essendo infatti molte agevolazioni fiscali garantite sulla base di specifici accordi e non di regole applicabili a tutti, le imprese più piccole, ad esempio in Olanda, si trovano a pagare un’aliquota paragonabile a quella italiana e a vedere quindi maggiormente erosi i loro guadagni, mentre multinazionali che realizzano utili molto più significativi sono ulteriormente agevolate.
Come evidenziato da una ricerca condotta nel 2018 da Torslov, Wier e Zucman, (“The missing profits of nations”), spostamenti della base imponibile delle grandi imprese tra paesi a livello globale aumentano sensibilmente le disuguaglianze. Considerando infatti che nel 2015 il 40% dei profitti è stato spostato verso paradisi fiscali o paesi fiscalmente aggressivi, la ricerca mostra che i paesi maggiormente danneggiati sono quelli europei. I paesi con regime fiscali favorevoli hanno tratto benefici da questi movimenti di capitali, nonostante la riduzione nel gettito dovuta ad una minore tassazione. Questo aumento di ricchezza nei paradisi fiscali non ha inoltre effetti positivi significativi sugli abitanti di questi paesi: i maggiori beneficiari di questo meccanismo sono gli azionisti delle multinazionali che hanno visto aumentare significativamente i loro guadagni.
La pianificazione fiscale nelle multinazionali
Un altro punto di vista da cui analizzare il problema dell’elusione fiscale è quello delle aziende che cercano di massimizzare i guadagni, sfruttando l’occasione fornita dai regimi di tassazione appena descritti. Le aziende riescono ad aggirare il fisco grazie ad alcune tecniche specifiche come la “base erosion” e il “profit shifting”, che vengono denominate con l’acronimo “BEPS”. Per “base erosion” si intende la tecnica attraverso cui una azienda riesce ad erodere la base imponibile in un paese dove genera i profitti, in sintesi, l’azienda minimizza la quantità di profitti che saranno tassati successivamente nel determinato paese. Mentre il “profit shifting” è lo spostamento dei profitti da un paese all’altro tramite transazioni interne all’azienda stessa. La combinazione di queste due tecniche permette, sfruttando un gap legislativo, alle grosse multinazionali di spostare i profitti da uno stato con una tassazione elevata verso stati con una tassazione più favorevole. Un noto esempio di una multinazionale che riesce a eludere il fisco è quello di Airbnb, che ha la sua principale sede europea in Irlanda. In questo modo la società paga le tasse sui profitti ottenuti attraverso la sua attività nei diversi stati europei quasi esclusivamente in Irlanda, dove la tassazione sui profitti delle aziende è estremamente favorevole. L’esempio di Airbnb permette di comprendere l’effetto delle BEPS, infatti la società riesce a minimizzare i profitti tassabili nelle sue filiali in paesi con una tassazione elevata, spostando successivamente i profitti verso la sede irlandese. Così facendo le tasse versate da Airbnb Italia ammontavano nel 2015 a soli 44.500 euro, a fronte della grande attività che la multinazionale svolge nel nostro paese.
Gli effetti dell’elusione sulle risorse statali e le possibili soluzioni al problema
Le pratiche di elusione fiscale appena descritte, incentivate dalle pianificazioni fiscali aggressive di stati come l’Olanda, oltre a sollevare problemi dal punto di vista etico, hanno, nella pratica, una importante ripercussione negativa: quella di sottrarre risorse agli Stati che hanno un sistema fiscale ordinario. In particolare, la riduzione della base tassabile e lo spostamento dei profitti generano una significativa riduzione delle entrate derivanti dalle tasse. La conseguenza diretta di ciò è una maggiore difficoltà nel sostenere la spesa pubblica, che aumenta nel tempo con l’aumentare dei profitti elusi. Se le entrate derivanti dalle tasse, infatti, diminuiscono, allora lo stato avrà un margine più stretto per stanziare la spesa pubblica senza incorrere in un deficit primario. Il deficit, che sarebbe generato da entrate inferiori rispetto alle spese, andrebbe, infatti, a gravare sul bilancio statale, aumentando il debito pubblico futuro. La difficile gestione della spesa pubblica, non è solo un problema di bilancio economico, ma impatta in modo rilevante sulla vita dei cittadini, in quanto dover moderare le spese potrebbe portare a tagli al welfare e ai servizi pubblici, così come agli investimenti, riducendo di conseguenza la qualità generale della vita e minacciando la crescita a lungo termine.
A fronte di un problema così pervasivo, però, esiste una possibile soluzione. Questa consisterebbe nell’armonizzazione delle politiche fiscali tra i diversi Stati membri, agendo in questo modo sulla causa principale del problema, ovvero la presenza di stati fiscalmente aggressivi all’interno del mercato unico, che, in questo caso, si vedrebbero costretti ad omologare il proprio sistema di tassazione a quello degli altri stati. Il tema del rinnovamento delle politiche fiscali degli stati dell’Unione , ormai da tempo emerge ciclicamente nei dibattiti Europei, per poi finire dimenticato. In questo particolare momento storico, però, può essere lecito aspettarsi una svolta decisiva in questo lungo dibattito. Questo anche alla luce delle soluzioni economiche comunitarie, tra cui il tanto discusso Next Generation EU, che potrebbero essere adottate in un futuro prossimo in risposta alla crisi economica scatenata dall’emergenza sanitaria. Proprio una scelta di questo tipo, infatti, potrebbe rappresentare un precedente fondamentale per una transizione verso politiche economiche comunitarie, a cominciare dall’armonizzazione fiscale. Per comprendere meglio a che punto di questo percorso si trovi l’Unione Europea, e quanto ancora ci sia da fare dal punto di vista delle politiche fiscali abbiamo intervistato Andrea Baranes, vice presidente di Banca Etica:
Quali riforme dei vari sistemi fiscali degli Stati membri sono necessarie per raggiungere uno stato di armonizzazione fiscale ben funzionante?
Su scala europea, il percorso di armonizzazione fiscale appare purtroppo molto lontano. Al contrario, fino a oggi le politiche dei singoli Stati sembrano rispondere più a una logica di “competizione” che non di Unione Europea. Ogni Paese cerca di attrarre capitali e investimenti, in una gara non solo su scala globale ma anche europea. Una delle leve principali su cui giocare è proprio quella fiscale e della tassazione.
Alcuni passi avanti sono stati fatti negli ultimi anni e forse soprattutto negli ultimi mesi anche in risposta alla pandemia. La necessità di trovare risorse proprie dell’Unione (ad esempio per finanziare il Recovery Plan o altri interventi) può rappresentare uno stimolo importante per accelerare il dibattito europeo sia sull’armonizzazione fiscale tra Paesi sia sulla questione di vere e proprie “tasse europee”.
Un esempio in questo senso è la Tassa sulle Transazioni Finanziarie, una piccola tassa su ogni compravendita di strumenti finanziari che permetterebbe da un lato di frenare la speculazione e le operazioni di brevissimo termine sui mercati, e dall’altro di generare decine di miliardi di euro ogni anno su scala europea. Banca Etica da anni sostiene questa proposta insieme a moltissime realtà della società civile italiana. La Commissione ha pubblicato ormai cinque anni fa un’ottima bozza di Direttiva, il Parlamento europeo ha votato in plenaria a favore a larga maggioranza, ma la proposta ancora non vede la luce. Un esempio di come molto spesso le proposte più interessanti e innovative rimangano “incastrate” in dibattiti e veti incrociati tra i singoli governi europei. Il primo passo e le maggiori responsabilità verso un’armonizzazione fiscale passa quindi dalla disponibilità e volontà dei singoli governi di affrontare seriamente il percorso.
Quali sono le mosse politiche che l’UE, o i singoli Stati membri, possono mettere in campo per incentivare queste riforme?
Quello che manca è principalmente la volontà politica di procedere. Come in molti ambiti di riforma finanziaria e fiscale, diverse proposte sono già sul tavolo, le principali difficoltà sono di natura culturale e politica, non tecnica. Pensiamo al tema della tassazione e dell’evasione ed elusione fiscale. Per anni la lotta all’evasione fiscale è passata dall’inseguire il paradiso fiscale di turno, anche tramite le liste nere e grigie di Paesi non collaborativi dell’OCSE.
Un approccio totalmente inefficace, sia perché molti dei peggiori paradisi fiscali erano e sono territori dell’UE o controllati da Paesi europei, sia perché non appena si riesce a intervenire nei confronti di un paradiso fiscale ne spunta un altro pronto a offrire servizi analoghi pur di attrarre capitali.
Solo negli ultimissimi anni l’approccio è finalmente cambiato, e le domande si sono spostate nei nostri Paesi: da dove provengono i capitali che finiscono nei Paradisi fiscali, chi ci guadagna e come. Spostando l’attenzione da noi sono emerse proposte come quella di una pubblicazione dei bilanci delle multinazionali suddivisa in ogni giurisdizione in cui operano. In inglese si parla di Country by Country Reporting (CbCR). Se le imprese possono pubblicare dati aggregati, è impossibile sapere se e quante tasse pagano. L’obbligo di pubblicazione per Paese permetterebbe al contrario di sapere immediatamente fatturato, costi, profitti per ogni giurisdizione e quindi quante tasse vanno pagate.
Parliamo di una delle misure potenzialmente più efficaci non solo contro l’evasione e l’elusione fiscale, ma anche contro il riciclaggio e i traffici della criminalità internazionale. Negli ultimi anni, anche complice la crisi e le difficoltà dei conti pubblici di molti Paesi europei, tale proposta è finalmente discussa ai più alti livelli.
Un esempio di come si dovrebbe procedere sia per contrastare l’evasione e l’elusione fiscale, sia per andare verso una progressiva armonizzazione fiscale nei Paesi europei. Una maggiore trasparenza è infatti un ingrediente fondamentale per capire quali Stati dell’UE traggono maggiori benefici da politiche fiscali aggressive e dove bisognerebbe intervenire.
Un’iniziativa europea come il Next Generation EU, che viene finanziato attraverso titoli comunitari e che potrà essere ripagata introducendo delle tasse europee, potrà facilitare il conseguimento di una armonizzazione fiscale o addirittura una creazione di un vero e proprio sistema fiscale europeo centralizzato?
Sicuramente si. Ogni iniziativa pensata su scala europea può essere un passo in avanti verso una maggiore armonizzazione fiscale e per iniziare a pensare a vere e proprie “tasse europee”. Il percorso però è ancora lungo, e come detto non passa solo da una dimensione tecnica o economica, ma prima ancora culturale e politica.
In primo luogo è estremamente difficile chiedere ai singoli governi di rinunciare a una parte della propria sovranità per spostare la tassazione su scala europea. In maniera ancora più importante, la stessa costruzione dell’UE è nata su alcuni pilastri che rendono molto più complessa l’idea di armonizzazione fiscale e la stessa lotta contro l’evasione e l’elusione fiscale. Il principale di tali pilastri è la completa libertà di movimento dei capitali. Perché la stragrande maggioranza del gettito – in Italia come in molti altri Paesi – proviene dal lavoro? Perché è impossibile anche solo parlare di una tassazione patrimoniale? Perché è cosi semplice per i capitali grandi sottrarsi al fisco e nascondersi in qualche paradiso fiscale? Queste e molte altre domande hanno una stessa risposta: se c’è stata una globalizzazione, è stata principalmente finanziaria e dei capitali.
Secondo i fautori, l’abbattimento di qualsiasi controllo sui movimenti di capitale avrebbe dovuto indirizzarli dove c’era più bisogno, portando a una crescita per tutti. L’esperienza degli ultimi decenni mostra che non solo non è stato cosi, ma al contrario la completa libertà dei capitali è uno, se non il principale motore, dell’aumento inaccettabile delle diseguaglianze e delle delocalizzazioni selvagge, degli enormi flussi di capitali illeciti frutto tanto dell’evasione quanto delle attività della criminalità organizzata.
Rimettere in discussione tale assunto e introdurre dei controlli sui movimenti di capitale significherebbe riscrivere i trattati fondanti dell’UE, e al momento appare utopico. Nello stesso momento, se davvero vogliamo cambiare rotta, interventi di armonizzazione fiscale o altre singole misure appaiono necessarie ma non sufficienti. Dovremmo ridiscutere alla base l’intero impianto finanziario e fiscale europeo e internazionale, e dei controlli sui movimenti di capitale sono il tassello principale di un simile percorso.