Nel film Minority Report, Tom Cruise interpreta il capo di una sezione di Polizia, la Precrimine, che riesce ad anticipare i delitti di potenziali assassini. Interessante ed efficace, si potrebbe dire, se non fosse che a essere “punita” non è la condotta delittuosa ma il pensiero. Il principio su cui si fonda il provvedimento della sorveglianza speciale è lo stesso: una persona viene identificata come potenzialmente pericolosa e, per questo, la si limita per prevenire che il pensiero criminoso si trasformi in atto. Si inizia a parlare ufficialmente di sorveglianza speciale nel decreto legislativo 159/2011, ma la logica sottostante al provvedimento affonda le sue radici nell’Italia preunitaria, quando ad essere posti sotto un controllo preventivo erano vagabondi, oziosi e briganti. Le misure come la sorveglianza speciale, l’avviso orale e i cosiddetti “fogli di via” vengono oggi categorizzate in misure ante delictum e sono legiferate in modo differente rispetto alle più diffuse misure post delictum, che puniscono un crimine già commesso. La loro origine risale alla seconda metà del XVI secolo e compaiono anche nella Reale Costituzione di Carlo Emanuele del 1770. Queste venivano applicate per prevenire possibili comportamenti dovuti a status soggettivi, condizioni sociali o appartenenza razziale. Nonostante ci si trovi nel campo delle ipotesi, del possibile e della soggettività, le misure in questione furono in seguito inserite anche nelle codificazioni dello Stato sabaudo, codificazioni che saranno le fondamenta dei sistemi di prevenzione dei futuri governi liberali. Sarà il brigantaggio nelle zone meridionali del Paese la prima causa che legittima, nel neocostituito Regno d’Italia, l’adozione di tali provvedimenti “eccezionali” che arriveranno, seppur mutati e adeguati, fino ai nostri giorni.
Il Codice Zanardelli del 1889 disciplina per la prima volta per fini amministrativi l’utilizzo di istituti di Polizia preventiva, già previsto nel Codice sardo, per perseguire non solo la pericolosità oggettiva delle condotte, ma anche quella soggettiva degli individui. Il legislatore del Regno d’Italia sfrutta così l’occasione per contenere il dissenso politico e, proprio a partire da quel momento storico, gli status soggettivi iniziano ad essere considerati non più reati penali di per sé ma piuttosto vengono disciplinati dall’autorità amministrativa di pubblica sicurezza.
Si arriva così al 1925 e al famoso Codice Rocco, la cui origine risale dalla possibilità del governo di modificare la legislazione penale, allora piena di difetti e lacune per l’edificazione di un regime autoritario.
Nello specifico era interesse del regime fascista, attraverso le misure preventive, contenere il dissenso grazie allo strumento del confino politico attuabile senza passare da una precedente ammonizione. Perfettamente in linea con il modus operandi del regime del ventennio, competenze legislative e competenze giuridiche si sovrappongono per impedire di sovvertire gli ordinamenti politici, sociali ed economici costituiti nello Stato e ridurre la pericolosità sociale e politica degli individui. In altre parole, l’amministrazione poteva decidere legittimamente e discrezionalmente quali misure applicare in base alla pericolosità sociale e politica, al fine di prevenire la criminalità e il dissenso, intervenendo così in maniera molto incisiva sulla libertà personale degli individui.
Con la nascita dell’odierna Costituzione sarebbe stato legittimo attendersi l’eliminazione del sistema preventivo personale, eppure l’ordinamento della Repubblica non è riuscito a liberarsi dell’apparato preventivo di Polizia. Quindi, come sostiene Sergio Moccia, professore di diritto penale all’Università Federico II di Napoli, ancora oggi queste misure rimangono le “sanzioni più problematiche che un ordinamento ispirato ai principi garantistici dello stato sociale di diritto possa conoscere”.
Nell’art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 si enuncia infatti che “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo”. Nel nostro attuale sistema penale, il reato e la colpevolezza comprovati al termine di un processo giuridico costituiscono i due fattori principali per cui vengono impartite le sanzioni e le pene. Il reato è un fatto che viola un’apposita legge, frutto di una costruzione sociale retta dal principio di tassatività: questo permette ai cittadini di conoscere esattamente i comportamenti vietati e le conseguenti sanzioni, così da evitare abusi del potere giudiziario. La colpevolezza viene dunque valutata in relazione a concreti fatti compiuti che violano delle norme giuridiche. Paolo Bronzo, durante un evento organizzato dal coordinamento degli studenti universitari Link , ricorda come uno dei presupposti fondamentali del diritto penale liberale sia infatti quello di “punire la condotta e non le persone per il loro modo di essere”.
Il professore di diritto penitenziario presso l’Università Sapienza spiega, inoltre, il successo delle misure preventive dovuto al fatto che “sono svincolate dallo statuto penale e applicabili con molta più facilità, colpendo una platea molto più vasta”. Le misure di ante delictum costituiscono provvedimenti amministrativi la cui applicazione si basa sul sospetto che un dato individuo possa in futuro commettere un reato.
Si tratta di pene senza delitto che non dipendono dal Codice penale e che vengono riempite di restrizioni e obblighi decisi in sede processuale. Si può incorrere tuttavia in una criminalizzazione secondaria punita penalmente dovuta alla violazione di tali obblighi, come quello di soggiorno, di firma e il rispetto di un coprifuoco.
La sorveglianza speciale, in particolare, viene applicata in seguito a un avviso orale e verbale della questura in cui si invita il soggetto destinatario a cambiare stile di vita, in nome dell’onestà e del rispetto della legge. La vaghezza e il paternalismo di questo invito costituiscono il culmine di questa misura definibile incostituzionale. “La sua applicazione è conseguente a un sospetto che in futuro per qualche elemento vago quella persona possa commettere un reato”, spiega Claudio Paterniti Martello, ricercatore dell’associazione Antigone. “Ѐ molto problematica perché si scontra con tanti principi costituzionali come la presunzione di innocenza. Si tratta di una formulazione che processa le intenzioni ed è in aperta contraddizione con il principio di tassatività secondo cui reati devono essere definiti con esattezza e proporzionati.” Le persone sono consapevoli che, a fronte di atti illegali, vanno incontro a limitazioni della libertà; non è altrettanto esplicito come anche il sospetto e lo stile di vita possano condurre alle stesse conseguenze.
L'intervento dei Tribunali internazionali
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), come ricorda l’avvocato Gianluca Vitale, ha avuto non pochi dubbi sull’efficacia dell’applicazione della legge ex. 1423/1956 (ora 159/2011), soprattutto per quanto riguarda le prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, ammettendo che la formulazione di queste imposizioni è vaga e indeterminata. Già nel 1980, nella sentenza Guzzardi c. Italia, la CEDU aveva stabilito che l’applicazione della sorveglianza speciale con ordine di soggiorno sull’isola dell’Asinara violava il diritto alla libertà personale, secondo l’articolo 5 della sua Convenzione. Il confinamento in un Comune diverso da quello di residenza, dal territorio esiguo, di difficile accesso, e dove i contatti sociali sono limitati, ha spinto la Corte costituzionale italiana a modificare alcune parti della legge. Nel 1988 è stata eliminata la possibilità per il Tribunale di ordinare l’obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello di residenza e, inoltre, ha aggiunto che quest’ultimo avrebbe dovuto basarsi su elementi concreti prima di dichiarare la restrizione.
Opposta fu invece la conclusione nel caso Ciancimino, dove le modalità di applicazione dell’obbligo di soggiorno con sorveglianza speciale non motivavano il riconoscimento della violazione di libertà personale. Quindi, tra i grandi dubbi che insorgono una volta coinvolta la Corte, vi è anche la sottile differenza tra “limitazione” e “privazione”, in relazione alla libertà personale. Una divergenza quantitativa, e non qualitativa, che porta però, come possiamo vedere anche nelle sentenze successive, a esiti differenti.
Trentasette anni dopo, infatti, la CEDU si trova di fronte ad un altro caso che coinvolge il decreto legislativo di sorveglianza speciale: De Tommaso c. Italia. De Tommaso, un uomo con precedenti penali tra i quali una pena di reclusione di quattro anni per traffico di droga, nel 2008 si ritrova con un’ordinanza di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel proprio Comune di residenza. Il tribunale di Bari ha ritenuto, con supposizioni fatte quasi esclusivamente sulla base dei precedenti penali, che il soggetto fosse immischiato in continui traffici delittuosi collegati al commercio di stupefacenti. Nel gennaio dell’anno seguente, la Corte d’Appello ha deciso di revocare la misura dopo varie segnalazioni da parte della Polizia locale a seguito di accertamenti: le accuse e i sospetti, in realtà, erano state fatte basandosi su un omonimo. De Tommaso decide così di proporre ricorso alle Corte europea denunciando la violazione degli artt. 5, 6, 13 CEDU, e art. 2 del Protocollo CEDU. Nel 2014, però, la Corte decide di rinunciare alla propria giurisdizione in favore della Grande Camera poiché, ai sensi dell’art. 30 CEDU, la questione in oggetto sollevava problemi di interpretazione. Passato quindi il testimone alla Grande Camera, quest’ultima decide di non accogliere la mozione presentata riguardante la violazione della libertà personale perché il soggetto era, di fatto, libero di lasciare la propria abitazione durante le ore diurne e di mantenere relazioni sociali. La valutazione più complicata è stata in relazione alla violazione o meno della libertà di circolazione, art. 2 Prot. 4 CEDU. La Corte conclude nell’impossibilità di prevedere il comportamento dell’imputato e, pertanto, la legge italiana si presenta come inadeguata rispetto agli standard convenzionali. Riguardo agli articoli 6 e 13, rispettivamente il diritto a ottenere un equo processo e il diritto a un rimedio effettivo, la Grande Camera ha respinto entrambi.
In primis perché la sorveglianza speciale non può essere equiparata a una sanzione penale; inoltre perché il ricorrente, secondo la Corte, avrebbe già goduto del rimedio rappresentato proprio dall’esito a favore dell’interessato di fronte alla Corte d’appello, e avrebbe anche ottenuto un risarcimento. L’esito della sentenza è stato a lungo dibattuto con opinioni a favore e contrarie da parte dei giudici della Grande Camera. È pertanto necessario sottolinearne l’esito che mostra come lo Stato italiano, riguardo alla legge in questione, non sia in grado di esprimersi in modo chiaro provocando conseguentemente un’incompatibilità con gli standard di qualità della legge richiesti per giustificare una qualsiasi limitazione di un diritto convenzionale.
Questa incapacità di definire i limiti e specificare il motivo del provvedimento preso da parte dello Stato italiano porta a conseguenze molto diverse a seconda della posizione politica della persona interessata.
Emblematico è il caso di una cittadina genovese di 49 anni, ai danni della quale la sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Genova ha disposto il provvedimento di sorveglianza speciale. I motivi addotti a causa di tale disposizione sono riconducibili al suo attivismo: principalmente manifestazioni in piazza e occupazioni. Il provvedimento è stato formulato dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Federico Manotti con l’approvazione della questura di Genova e servirebbe a “contrastare una pericolosità sociale generica”. In prima battuta la Dda aveva richiesto l’applicazione di cinque anni di misura restrittiva, la cosiddetta “prevenzione per pericolosità sociale qualificata”, poichè l’imputata risultava essere, a detta loro, indagata per associazione a delinquere con finalità di terrorismo. Questo in relazione alla sua presunta appartenenza alla Federazione anarchica informale (Fai), associazione da loro ritenuta eversiva e indicata come responsabile di alcuni attentati e azioni di tipo terroristico. Il Tribunale però, dopo aver esaminato le molteplici indagini condotte da Digos e Ros, ha ritenuto scarsi gli elementi per attribuire all’imputata un’affiliazione diretta con la Fai. Ha optato quindi per una condanna più breve, scendendo a due anni di sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, il coprifuoco dalle 22 alle 5, il divieto di partecipazione a manifestazioni e di portare con sé armi e sostanze infiammabili.
A seguito dell’esito del processo, il 16 gennaio scorso è partito un presidio itinerante di solidarietà organizzato dall’Osservatorio Repressione: “Contro la sorveglianza speciale, dei nostri pensieri, dei nostri comportamenti, delle nostre idee e relazioni”. La diminuzione della pena a fronte dell’accertamento di mancanza di prove è l’emblema dell’incostituzionalità di queste misure: comprovata l’assenza di elementi accusatori si persegue comunque la donna, perché, se il sospetto persiste, si può.
Di tutt’altro genere è la misura di sorveglianza speciale imposta il 25 gennaio scorso nel milanese a un uomo responsabile di violenze sessuali perpetrate su minori. In questo caso il provvedimento restrittivo è volto a monitorare costantemente la pericolosità dell’uomo, già condannato più volte e detenuto per anni a partire dai primi duemila in carcere per reati di pedofilia. A piede libero, una volta scontati circa dieci anni di detenzione, l’uomo è riuscito a rifarsi una vita a Milano trovando impiego come istruttore di pallavolo, ed è ritornato a mettere in pericolo delle giovani ragazze. Alla luce di questa propensione alla violenza sui minori, il questore di Milano e il Tribunale di prevenzione hanno in extremis disposto nei confronti dell’uomo la sorveglianza speciale. Di fronte a violenze, tanto palesi quanto considerate poco politiche dall’ordinamento giuridico, ci sono voluti ben vent’anni di reati gravi per indurre il Tribunale a prendere una decisione di questo tipo.
Il caso di Giuliano Castellino è, invece, ancora diverso. Il leader romano del partito politico neofascista Forza Nuova, secondo gli inquirenti, avrebbe messo in atto manifestazioni di protesta non autorizzata violando le norme anti-Covid. L’accusa a Castellino sarebbe riconducibile alla sua avversione verso le politiche sanitarie in atto. I fatti risalgono al 27 ottobre 2020 a Roma, in Piazza del Popolo, durante l’autoproclamato “movimento rivoluzionario”. Castellino avrebbe reagito con ostilità alle misure dei reparti schierati, in assetto antisommossa, che cercavano di rescindere gli assembramenti creati durante la manifestazione: da quel momento in poi la piazza si è trasformata in un teatro di scontri violenti, un episodio di guerriglia urbana con lancio di bombe carta, petardi e cassonetti in fiamme da parte dei militanti di Forza Nuova. Nel provvedimento si legge che Castellino appare “indubitabilmente un soggetto pericoloso in relazione ai reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica”. Il leader di Forza Nuova era già stato sottoposto a due provvedimenti di applicazione della misura restrittiva, nel 2014 e nel 2018. Il Tribunale attribuisce a Castellino il suo ruolo politico come elemento cruciale su cui si basa il provvedimento di sorveglianza speciale, incoraggiando centinaia di persone a condurre atti di disobbedienza e violenza.
Il provvedimento di sorveglianza speciale, quando si tratta di casi a sfondo politico, fa perno sul bisogno di mantere l’ordine pubblico e la pubblica moralità, due concetti che sembrano essere sempre soggettivi e aleatori: qualora il questore ritenga che un determinato soggetto costituisca un problema politico o sociale, rientra nei suoi poteri quello di imporgli una misura preventiva.
La natura della problematicità socio-politica di un individuo sembra dipendendere direttamente dalla tipologia delle sue ostilità nei confronti di decisioni e norme istituzionali, dalla loro ostentazione e da quanto queste possono risultare nocive per un presunto equilibrio tra potere e società. Più esse sono potenzialmente funzionali a scuotere la sensibilità di un corpo sociale, più è facile che lo stato tenda a reprimerle; quando si mette in dubbio la conservazione della legittimità politica, il colore dell’antagonismo cessa di essere rilevante.
Il recente caso torinese
De Tommaso sarà ancora per molto tempo questione di dibattito tra Strasburgo e lo Stato italiano, ma una recente sentenza presso il Tribunale di Torino potrebbe far parlare ancora di più, qualora arrivasse fino alla Corte di Strasburgo. Stiamo parlando della condanna ai danni di Maria Edgarda Marcucci, conosciuta come “Eddi”, che si è trasferita a Torino per frequentare il corso di filosofia presso l’Università di Torino. Eddi partecipa attivamente alle lotte dei movimenti della sinistra extraparlamentare torinese. È il suo interesse per valori che non vede rappresentati nella società che abita a spingerla a partire, nel 2017, per la Siria, per combattere a fianco dei YPG curdi contro l’ISIS.
Nel settembre 2014 i miliziani dello Stato Islamico attaccano la città di Kobane, al centro di Rojava. La città resiste. Le forze curde, aiutate da una coalizione anti-ISIS, riescono a liberare la città di Kobane nel 2015, ma la guerra contro lo Stato Islamico non è terminata. Il documentario “Soggetti Pericolosi”, diretto da Valentina Slavi e Stefania Pusateri, racconta la storia non solo di Eddi, ma anche di altri cinque ragazzi di Torino: Fabrizio Maniero, Jacopo Bindi, Paolo Andolina, e Davide Grasso.
Nel corso del 2016, dopo l’entrata turca in territorio siriano, Jacopo decide di filmarsi mentre spiega il problema reale, non visibilizzato dai media internazionali: l’ISIS non è più a Rojava, e i turchi stanno cercando di fermare la nascita di un’entità statale curda. In Italia gli accordi sulla vendita di materiali d’armamento con la Turchia hanno contribuito molto alla scarsa diffusione tempestiva della notizia: si tratta infatti di accordi non ufficiali e dei quali si conoscono ancora oggi pochi dettagli.
È il gennaio 2019 quando, al loro ritorno dal Rojava, la Procura di Torino opta per la condanna alla sorveglianza speciale ritenendo il loro bagaglio di esperienza rivoluzionaria e l’appartenenza a un gruppo armato parastatale sufficienti come elementi di sospetto per sottoporli a una misura ante delictum. Il provvedimento non viene però confermato per tutti e cinque, ma solo per Eddi, nel dicembre 2020. Probabilmente la scelta di condanna è ricaduta su Maria a seguito della sua partecipazione ad una protesta contro un’azienda aerospaziale che costruisce apparati bellici e vantava un pannello con i rapporti Italia-Turchia durante un meeting all’Oval di Torino Lingotto.
In seguito alla sentenza, Eddi ha l’obbligo di comunicare alle autorità i suoi movimenti, non può lasciare la sua dimora a Torino, le viene imposto un coprifuoco dalle 21 alle 7, oltre al divieto di partecipare a riunioni o manifestazioni. Si tratta di limitazioni significative per qualsiasi persona, ma ancora di più per chi, di fronte alla legge, vede i propri diritti limitati sulla base di sospetti e non di fatti reali. “Parliamo di categorie immaginate, inventate” spiega Riccardo Bucci di Alterego-Fabbrica dei diritti, associazione che si occupa di analizzare la legislazione nazionale e internazionale per proporre un nuovo metodo di lotta contro le disuguaglianze e le violazioni dei diritti umani, “categorie che vengono costantemente e mediaticamente demonizzate”.
La categorizzazione dei soggetti considerati “pericolosi” per la società è dunque totalmente arbitraria e si basa su una valutazione del tutto politica. Questo è ben visibile nei provvedimenti presi negli ultimi anni in particolare da parte della procura di Torino: non è un caso, infatti, che le misure preventive sopra citate vengano applicate nei confronti di militanti politici, impegnati attivamente in lotte transfemministe, anticapitaliste e ambientali, ed emblematico è l’accanimento contro il movimento NoTav.
Eddi con il suo bagaglio politico e la sua esperienza rivoluzionaria in Rojava rappresenta per le istituzioni dello status quo italiano quello che di più minaccioso si possa immaginare dal punto di vista delle potenzialità rivoluzionarie dell’ideologia. L’esperimento del confederalismo democratico curdo viene considerato dalla professoressa di filosofia del diritto Enrica Rigo come “una delle esperienze più interessanti di democrazia dal basso che si è fatta negli ultimi anni. Una sfida vera e propria allo Stato, una sfida al capitalismo, una sfida al patriarcato. Costruire e darsi leggi, un esperimento democratico di istituzioni democratiche ecologiste e femministe che portassero avanti questa idea alla base del confederalismo democratico, quella che viene definita un’intersezione delle lotte contro i vari regimi di oppressione, in primis quello dello Stato col suo bagaglio coloniale e imperialista e anche di violenza”. Tuttavia, la sua attività politica nei confini democratici del nostro Paese non è mai sfociata in reati penalmente perseguibili, e la sua potenziale pericolosità sociale è frutto di una costruzione ad hoc per legittimare l’applicazione della sorveglianza speciale.
Di recente Eddi ha aperto un nuovo profilo Instagram (@social_mentepericolosa) nel quale, durante una diretta, ha dichiarato la propria volontà di volersi attivare contro un’imposizione che nega i suoi diritti. Ha intenzione di partecipare attivamente a assemblee e riunioni pubbliche che le permettano di portare avanti lotte in cui crede, tra le quali l’ottenimento della condanna di DAESH tramite l’istituzione di un Tribunale Speciale e l’isolamento politico ed economico della Turchia.
Non è così strano che uno stato democratico faccia uso di questi strumenti. Si tratta comunque di “armi” a disposizione, anche se formalmente non penali, di cui lo Stato dispone e che può legittimamente usare. La soluzione non è affatto immediata o semplice. Anche se la Corte Costituzionale ha in parte smantellato l’istituto della sorveglianza speciale, sono necessarie delle leggi per riformare o abolire l’adozione di tali strumenti preventivi. Il caso di Eddi probabilmente finirà per scontrarsi con Strasburgo, proprio come le sentenze precedenti; bisognerà vedere se questa volta lo Stato italiano sarà in grado di accettare il fatto che la legge 159/2011, nonostante venga anche usata per contrastare l’attività mafiosa, è incompatibile in termini di standard convenzionali, e viola dei diritti imprescindibili.