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Come muore il neoliberismo

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L’economista francese Thomas Piketty, in un articolo pubblicato il 14 aprile su Le Monde, ha ribadito la necessità di rilanciare l’“État social” nei Paesi ricchi e di velocizzare il suo sviluppo negli Stati più poveri. Il filosofo e sociologo sloveno Slavoj Žižek in un articolo su Internazionale del 21 marzo ha sostenuto la tesi della necessità di un nuovo comunismo per affrontare la crisi sanitaria. L’economista italiana Mariana Mazzucato – la quale fa anche parte del team che guida l’Italia nella fase 2 di riapertura – in un articolo sul Guardian ha criticato il ruolo di osservatore a cui l’ideale neoliberista relega i governi degli Stati in materia economica, sottolineando la necessità che questi riacquistino una posizione di primo piano per garantire una crescita sostenibile e inclusiva. Tutti questi teorici hanno più o meno da sempre mostrato posizioni critiche verso il neoliberismo e auspicato la rinascita di nuove politiche di welfare, ma la convinzione che in questi mesi si sta diffondendo sempre di più è che l’epidemia di Covid-19 possa portare il tanto atteso cambiamento nel sistema economico vigente in favore dello Stato sociale. 

Esistono però una serie di elementi che rendono tale prospettiva non così astrusa. Ciò vale in particolare nelle democrazie occidentali, economicamente più affermate ma allo stesso tempo sempre meno produttive, e politicamente più sensibili nel trasformare in azioni di governo la necessità di maggiori diritti o tutele economiche.

 

Guasto al motore

Ritornando a prima dello scoppio dell’epidemia e analizzando le principali tendenze economiche degli ultimi anni, si nota facilmente come il neoliberismo nel tempo abbia mostrato alcuni problemi intrinsecamente presenti nella sua struttura, che ne compromettono sempre di più la stabilità e l’efficienza. La crisi finanziaria del 2008 ha evidenziato ed esasperato tali problemi, tanto che recentemente anche diversi economisti sostenitori del capitalismo hanno preso posizioni molto critiche nei confronti del sistema attuale. Tra di loro c’è Martin Wolf che, in un articolo del Financial Times, difende il capitalismo da quella che definisce la sua versione alterata, che ha mostrato il suo lato peggiore negli ultimi decenni. 

Wolf comincia la sua analisi soffermandosi, in particolare, sulla stagnazione della produttività e sulla crescita delle disuguaglianze. La crescita media della produttività nelle economie sviluppate, infatti, è crollata nell’ultimo decennio, come dimostra lo stesso articolo del Financial Times. La stessa conclusione si desume dai dati della World Bank, secondo cui la crescita del PIL pro capite dei paesi OECD ha subito un forte rallentamento negli ultimi quindici anni. A questo si aggiunge una crescita della capacità dell’1% più ricco della popolazione di catturare una maggiore proporzione del reddito lordo totale. Nel 2015 all’1% della popolazione degli Stati Uniti corrispondeva poco meno del 18% del reddito lordo totale generato. Trent’anni prima, nel 1985, il dato si attestava solo al 9%, come dimostra uno studio di François Bourguignon, ex capo economista della World Bank. Ciò delinea un quadro preoccupante che mette in luce da una parte le difficoltà dei settori produttivi che costituiscono la cosiddetta “economia reale”, e dall’altra le dirette conseguenze che queste hanno sulla vita delle persone e sulla loro capacità di accumulare ricchezza, dando vita a profonde disuguaglianze.  

Questa situazione è la conseguenza di una crescente capacità di pochi individui e aziende privilegiati di concentrare risorse nelle proprie mani, sottraendole al resto della società. All’interno del mercato dei beni tale processo si riflette nell’eccessivo market power di alcune aziende. Sempre più spesso, infatti, alcune di queste diventano monopoli, concentrando intorno a sé un’enorme quantità di capitale e liberandosi con estrema facilità dalla concorrenza per conquistare grandi porzioni di mercato. Le cinque più grandi aziende americane nel campo della tecnologia, Apple, Microsoft, Facebook, Alphabet e Amazon, sono un chiaro esempio di questo meccanismo. Da sole infatti, come riporta l’Economist, hanno un valore che corrisponde a un quinto del valore totale dello S&P 500, l’indice che contiene i titoli delle 500 società più importanti quotate a New York. La presenza di questi colossi in primo luogo danneggia seriamente la concorrenza, che è da sempre il principio su cui si basa il libero mercato, e in un senso più ampio anche il capitalismo stesso, creando inefficienze nei mercati e diminuendone la produttività. E inoltre, ha delle serie ripercussioni sul mercato del lavoro: un market power più alto, infatti, permette di pagare stipendi più bassi in relazione all’aumento dei prezzi generato dal monopolio, incidendo sul potere d’acquisto degli individui. 

Questi tipi di inefficienze vengono ulteriormente amplificati dallo squilibrio tra la rapida crescita del settore finanziario e la contrapposta difficoltà dei settori produttivi. Un report di luglio 2018 sulla finanziarizzazione in Europa, condotto dall’università Sciences Po, con il sostegno di un fondo dell’UE per la ricerca, mostra come questa sia aumentata negli ultimi anni. Nel periodo preso in esame infatti, cioè tra il 2000 e il 2017, il rapporto tra il totale degli asset finanziari e il PIL è cresciuto costantemente. In questo caso, lo sviluppo finanziario attira investimenti e risorse umane con la promessa di grandi profitti. Così facendo però, finisce per diventare un peso per il resto dell’economia, sottraendo risorse ai settori produttivi e contribuendo così ad accrescere il problema dell’improduttività. A questo si aggiunge il fatto che un mercato finanziario iperattivo e fortemente deregolamentato è più propenso a generare bolle di mercato e a farle poi esplodere, come insegna il 2008, dal momento che vengono ricercati investimenti sempre più rischiosi.

L’effetto di queste inefficienze nei mercati e della mancanza di produttività è quello di far diminuire, in modo costante, la porzione di PIL generata dal lavoro a favore di quella generata dal capitale. Si tratta di un trend che riguarda le più importanti economie avanzate, come confermato dallo studio di Bourguignon. Il risultato, di fatto, consiste in una diminuzione della capacità, per la grande maggioranza delle persone, di accumulare capitale. Sulla base di questo scenario, una costante crescita delle disuguaglianze e dell’insoddisfazione è inevitabile, e l’intero equilibrio del sistema politico-economico sembra precario. Perciò è lecito chiedersi se un sistema che ha rinnegato gli stessi principi basilari del capitalismo, come concorrenza, efficienza e mobilità sociale, possa ancora reggere in futuro. E se tutto questo faceva già parte delle teorie di molti economisti, la pandemia lo ha reso visibile anche agli occhi dei meno attenti, dimostrando quanto un sistema profondamente diseguale possa avere conseguenze disastrose sulla sicurezza e sulla salute delle persone. 

Nella salute e nella malattia, mai uguali

Nella pandemia globale da Covid-19 non tutti i gruppi sociali sono egualmente esposti al contagio, né hanno pari possibilità di accedere al trattamento sanitario. Stando alle dinamiche dell’emergenza nelle economie occidentali, il rischio è quello che le disuguaglianze di partenza possano fungere da moltiplicatore degli effetti del virus – sia sanitari che economici –  tra le fasce più svantaggiate, aggravando la situazione di chi, anche prima dell’emergenza, non poteva permettersi adeguate prestazioni mediche. 

Ciò risulta evidente se si considera l’impatto del virus sulla società italiana. Da un punto di vista sanitario, le fasce più deboli sono le stesse che rappresentano i settori essenziali (come la filiera agricola, l’assistenza domiciliare, i trasporti di cose e persone) che sono rimasti attivi anche nelle fasi più acute dell’emergenza. Non sono pochi i casi in cui i dispositivi di protezione sono stati insufficienti o sono arrivati in ritardo, come dimostrano i numerosi reclami da parte di sindacati sparsi su tutto il territorio. Particolarmente esemplificativi sono i casi di Amazon e di alcune aziende di food delivery, documentati anche da Scomodo.

La stessa disuguaglianza strutturale si riscontra sugli effetti economici del virus. La minaccia attuale è specialmente rivolta ai 24 milioni di lavoratori dei settori non essenziali, un terzo dei quali, stando ai dati ISTAT, ha visto sospese le proprie attività in base alle misure di isolamento. Tra questi – rileva l’INAPP – figura un 53% di artigiani a fronte di un 33% di grandi impresari, dimostrando quindi la discrepanza esistente tra le differenti classi sociali anche sotto la pandemia. Inoltre, le misure economiche messe in piedi dal governo lasciano al di fuori dei provvedimenti assistenziali quelle stesse categorie strutturalmente svantaggiate in termini di tutele lavorative (Vedi Scomodo n.30 Socchiudere tutto).

Tutto questo si riflette in maniera ampliata negli Stati Uniti per vari motivi: con un coefficiente di Gini – utilizzato per misurare la disuguaglianza dei redditi, in cui 1 è il massimo della disuguaglianza e 0 il minimo – allo 0.39, gli USA sono il Paese con le maggiori disparità economiche tra le democrazie occidentali, oltre che con un sistema sanitario notoriamente quasi del tutto privatizzato. Sono 44 milioni gli individui con una copertura sanitaria insufficiente e circa 30 milioni ad esserne completamente privi, secondo i dati della fondazione filantropica Commonwealth Fund. E le statistiche ufficiali dello United States Census Bureau dimostrano che sono gli ispanici e gli afroamericani le categorie che hanno una percentuale maggiore di individui non assicurati. I danni della pandemia rispecchiano alla perfezione tale situazione. Come ha denunciato la stazione radio WBEZ, il 70% delle morti da Coronavirus nella città di Chicago ha colpito la comunità afroamericana, nonostante questa costituisca il 29% della popolazione urbana, secondo quanto affermato dall’assessore alla Salute Allison Arwady – che ha anche sottolineato come l’aspettativa di vita degli afroamericani sia inferiore di 9 anni rispetto a quella dei bianchi. 

In questo scenario la maggior parte dei lavoratori di quasi tutto il mondo è in regime di smart-working, un’opzione estremamente conveniente per molte aziende pubbliche e private, che però si rarefa se si procede verso le fasce di reddito più deboli. Compromesso da disparità strutturali, lo smart-working diventa tanto più difficoltoso quanto più è ristretta l’unità abitativa e numeroso il nucleo familiare, il che è, ancora una volta, direttamente legato alle condizioni socioeconomiche individuali. L’indagine condotta a marzo da InfoJobs suggeriva che, in Italia, solo il 15% degli occupati era in smart working, mentre il 13% lavorava normalmente, il 25% era in congedo retribuito e il 45% senza reddito – percentuale che sale al 50 per le donne e che è stata soltanto parzialmente assorbita grazie alle ultime misure assistenziali del governo. L’organizzazione VOX per la ricerca sull’economia politica riporta in che misura i vari settori sono idonei a lavorare da casa da casa nel Regno Unito, quota che corrisponde a un 17% del settore primario e un 70% del settore terziario digitale. Ugualmente, le attività sono limitate al 30% per chi percepisce meno di £10.000 annuali e al 60%, invece, per chi ne guadagna più di £70.000. In America, l’Ufficio di Statistica del Lavoro riscontra che il 62% dei lavoratori flessibili fa parte del 25% di coloro che percepiscono il salario più elevato, laddove tra i lavoratori più a basso reddito gli smart workers si limitano al 9%. E’ evidente quindi come il virus abbia esasperato quelle disuguaglianze pregresse, mostrando ancor di più i lati negativi di un sistema economico che, pur di lasciare spazio ai mercati, riduce sempre di più le garanzie delle classi meno abbienti.

Il domani è già oggi

E’ probabile quindi che, proprio a partire dall’insofferenza generata dalle disuguaglianze rese evidenti dall’epidemia di Covid-19, nasca una nuova politica economica, non più improntata sul laissez-faire, ma su una rinnovata attenzione per lo Stato sociale. Dopotutto, l’idea che una rinascita delle politiche di welfare sarebbe stata l’inevitabile conseguenza di un neoliberismo morente circolava da tempo: la pandemia non avrebbe fatto altro che accelerare il processo.

In un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Policy a gennaio di quest’anno – quando il virus non era ancora un problema – Sheri Berman, professoressa di Scienze politiche al Barnard College, sostiene la tesi che le falle del sistema neoliberista siano di nuovo visibili alla maggior parte dei cittadini delle democrazie occidentali, polarizzando una risposta politica di estrema destra o estrema sinistra. Per questo auspica la necessità di una rinascita di politiche di assistenza sociale. La conclusione dell’articolo è particolarmente profetica: “Il mondo non è minimamente vicino la situazione degli anni ‘30 e ‘40. Si può solo sperare che non serva una nuova tragedia per fare in modo che le persone di ogni tendenza politica riconoscano i vantaggi di una soluzione socialdemocratica alla crisi contemporanea”. Considerando che il 10 Aprile l’FMI abbia dichiarato che la pandemia creerà la peggiore depressione dal 1929 a oggi, bisogna prendere atto del fatto che il mondo è – seppur chiaramente con differenze importanti – in una condizione economica simile a quella degli anni ‘30. 

Un ulteriore riscontro arriva da Paul von Chamier, data specialist del centro di ricerca Center on International Cooperation e autore di un report in cui si esaminano le condizioni che creano il consenso politico per un’economia incentrata su tasse progressive e un’importante spesa pubblica. Contattato dalla redazione di Scomodo, von Chamier spiega che “La recessione causata dalla prima guerra mondiale rafforzò una grande tendenza: il ruolo sempre minore dell’agricoltura nelle economie occidentali. Questo creò un surplus di persone economicamente abbandonate nelle province e piccole città. Adesso stiamo assistendo ad un’altra grande tendenza nelle economie occidentali: la diminuzione dell’importanza dell’industria manifatturiera tradizionale. Si creeranno nuove sacche di popolazione escluse. Anche se la natura della transizione è diversa, rischi e soluzioni sono piuttosto simili”. I rischi a cui si riferisce von Chamier sono le risposte autoritarie: Nazismo, Fascismo e la dittatura Franchista sono stati i prodotti diretti o indiretti della Prima Guerra Mondiale e delle ripercussioni della Grande Depressione in Europa. Le soluzioni invece sono le politiche di welfare come il New Deal negli Stati Uniti e le politiche economiche delle socialdemocrazie europee dopo la Seconda Guerra Mondiale – si tratta ovviamente di semplificazioni che non tengono conto della complessità e della concomitanza di numerosi fattori tipici di ogni evento storico, ma pur sempre indicative.

La pandemia, in questo senso, ha semplicemente accelerato un processo già in atto. In un articolo scritto per la rivista accademica The Conversation, l’economista Simon Mair ipotizza quattro futuri possibili dopo l’emergenza Covid-19. I vari modelli si basano sulle combinazioni di due fattori: una risposta centralizzata o decentralizzata, e un’economia che prende come principio guida il profitto o la protezione della vita. 

Uno dei due risultati che implicherebbe il mantenimento di un’economia basata sul profitto è il “capitalismo statale”, inteso come il tentativo da parte degli Stati di utilizzare stimoli fiscali per far ripartire l’economia come era prima. Questo è ciò che sta avvenendo in questo momento praticamente ovunque, ed è probabilmente la speranza della maggior parte dei Capi di Stato di tutto il mondo. Lo stesso Mair, contattato dalla redazione di Scomodo, conferma questa ipotesi: “Nel breve termine, i governi si stanno adoperando per proteggere la vita. Ma penso che nella maggior parte dei casi sia fatto soltanto per proteggere i mercati sul lungo periodo. Sono sempre disposti a tutto pur di tornare ai soliti affari”. Tale prospettiva rimane però valida solo nel caso in cui l’emergenza sanitaria del Coronavirus duri poco tempo, prospettiva non affatto scontata. E inoltre, bisogna considerare il ruolo ideologico della pandemia. 

Per gli economisti di sinistra infatti, i risultati di un capitalismo con alti debiti e crescita stagnante – come quello che ha caratterizzato le economie occidentali degli ultimi decenni – sarebbero consistiti prima o poi in tre elementi, come spiega il giornalista Paul Mason su Aljazeera: reddito universale, pagato dagli Stati man mano che una maggiore automatizzazione riduce i lavori ben pagati; banche centrali che prestano soldi direttamente agli Stati per farli sopravvivere; grandi corporazioni di proprietà pubblica che servono a mantenere servizi vitali e che non potrebbero essere gestite in un’ottica di profitto. Di fatto tutto questo sta già succedendo, seppur in via del tutto eccezionale e temporanea, a causa della diffusione del virus nel mondo. In questo senso la pandemia è riuscita in quello che, come spiega lo studioso Mark Fisher in un passo del suo saggio Realismo Capitalista, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni politica di emancipazione: dimostrare che ciò che si è sempre reputato impossibile è, in realtà, a portata di mano. Non è detto quindi che una volta finita l’emergenza, quindi, si possa tornare a quella che finora è stata considerata come la normalità senza alcun effetto permanente.

Ma per fare in modo che una nuova politica economica si imponga come la norma – in un processo graduale e a lungo termine, se si esclude l’improbabile ipotesi di rivoluzioni sanguinarie – serve una volontà politica forte e costante. Che non è così semplice da trovare.

 

Si può fare?

Dagli anni ‘80 in poi,  i principali partiti socialdemocratici europei e americani hanno iniziato ad adottare politiche neoliberiste sempre più a viso aperto. Primi ministri di ispirazione socialdemocratica come Tony Blair e Bill Clinton durante i loro governi, hanno attuato riforme finalizzate più a incrementare i dividendi delle grandi corporations che a tutelare gli interessi dei ceti meno abbienti. Quasi canzonatoria appare l’affermazione nel 2006 fatta da Bersani, allora ministro per lo Sviluppo economico del governo Prodi, all’Economist: “Saremo più liberali di Berlusconi”. Ciò ha prodotto una crisi di molti partiti di sinistra nel panorama internazionale, i quali hanno accusato un calo vertiginoso di consensi oltre a un profondo dissesto ideologico. 

Dopo la crisi del 2008, però, in America e in Europa c’è stata un’inversione di tendenza: larghi strati della popolazione hanno iniziato a chiedere di abbandonare il sistema neoliberista e di limitare le politiche di austerità. Sull’onda di queste richieste sono partiti anti-sistemici come Podemos che, insieme ai partiti socialisti e di sinistra, sono riusciti almeno parzialmente ad intercettare parte di quel malessere popolare che aveva pervaso buona parte d’ Europa. 

Oggi, se in alcuni Paesi europei si assiste a un avanzamento delle destre nazionaliste, in altri sono al potere governi apertamente socialisti – due fenomeni che di fatto si basano sullo stesso sentimento: l’insofferenza generata dal sempre più evidente fallimento del modello neoliberista.

Il governo di coalizione Podemos-Psoe, attualmente al potere in Spagna, è uno dei più a sinistra nella sua storia. In Portogallo, il governo socialista in coalizione con il Partito comunista e il Bloco de Esquerda è stato fautore del “miracolo portoghese”: attraverso una serie di riforme è riuscito a riportare i salari e le pensioni ai livelli pre-crisi, ad aumentare il salario minimo e a diminuire le tasse sul lavoro. Altrettanto vale per gli Stati Uniti. Nonostante l’avversione endemica della popolazione americana a qualsiasi forma di socialismo, il programma politico di Bernie Sanders – ritiratosi dalla corsa alle primarie democratiche – rimane largamente sostenuto dalle fasce più giovani della popolazione. Secondo un sondaggio dell’agenzia Gallup infatti, il 63% dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 34 anni voterebbe per un candidato socialista.

Tutte queste forze anti-sistemiche però devono fare i conti con organismi internazionali come l’FMI o la cosiddetta Troika – formata da BCE, FMI e Commissione Europea – che in campo economico hanno un raggio d’azione decisamente ampio e sono poco influenzati dalle oscillazioni della politica. I precedenti non sono rassicuranti, come mostra l’emblematico caso greco del 2015: il primo ministro greco Alexis Tsipras, nonostante il avesse vinto il “No” al referendum sulle politiche di austerity, si trovò costretto ad accettare il prestito da parte dell’FMI con l’annesso pacchetto di “riforme strutturali” e con le conseguenti dimissioni del ministro delle finanze Yannis Varoufakis. Un altro esempio interessante è quello di Joseph Stiglitz,  Chief Economist della banca mondiale dal 1997-2000. Dopo essersi dimesso polemicamente da questo incarico, nel saggio Globalization and Its Discontents, attacca pesantemente l’FMI accusandolo di non avere una gestione né trasparente né democratica. In particolare sostiene come l’FMI imponga, ai vari Paesi, una ricetta  “standardizzata”, basata su teorie economiche semplicistiche, che finiscono per aggravarne la situazione economica invece di risolverla. Inoltre, sottolinea come troppo sovente il suo operato appaia più orientato a tutelare i creditori che a risanare realmente le economie in crisi e promuovere lo sviluppo del cosiddetto terzo mondo.

In uno scenario in cui questi organismi internazionali rimangono egemoni e sono tutt’altro che orientati a un cambiamento, sembra difficile valutare positivamente le possibilità che hanno i governi nazionali di percorrere strade economiche alternative. Dall’altro lato però, le prospettive di queste istituzioni non dureranno molto se continuano ad ignorare la richiesta di un cambiamento drastico che proviene da sempre più Stati.

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