Chi non ha mai sentito rivolgersi a tavola dai genitori la più classica delle strategie persuasive quando il pasto non veniva accolto con grande entusiasmo? Col senno del poi, quell’ingenua ma calzante incitazione può ancora risuonare nelle nostre menti con la stessa capacità persuasiva, celando paradossi e contraddizioni che continuano a perpetuarsi nel nostro quotidiano. Quanto stiamo per affrontare riguarda un dramma largamente riconosciuto: quello dello spreco alimentare, la cui urgenza ha riscosso negli ultimi anni grande successo nelle agende politiche. Infatti, la questione si inscrive in un contesto che valica il confine delle possibilità del singolo e si intreccia con le dinamiche istituzionali di smaltimento, riciclo e recupero di rifiuti alimentari. Il cibo destinato al consumo umano, non a caso, viene perso oppure sprecato lungo tutta la filiera alimentare.
Nonostante non sia ancora stato sviluppato un metodo di misurazione del fenomeno largamente riconosciuto e diffuso, la FAO – l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura – ha esaminato come in aggregato si perda un terzo del cibo prodotto a livello mondiale: una frazione tanto grande da poter soddisfare il fabbisogno di quattro volte la quantità di persone che oggi soffre di malnutrizione. L’esigenza di un’inversione di rotta e di una riformulazione dei sistemi di estrazione, lavorazione, produzione, allocazione e smaltimento di prodotti alimentari sono i capisaldi dell’Agenda 2030 Onu, che promuove, tra gli altri, obiettivi come il consumo e la produzione responsabili, città e comunità sostenibili e abbattimento della fame. Ridurre lo spreco alimentare è una sfida complessa che richiede sicuramente una presa di consapevolezza individuale, ma anche una vera e propria pianificazione che tenga conto di tutti gli attori coinvolti, dal settore privato ai consumatori, dai Governi centrali alle organizzazioni regionali. Non è un caso che molti di questi attori abbiano già intrapreso una serie di azioni significative per combattere questo fenomeno. La città di Milano svolge, ad oggi, un ruolo pionieristico in questo senso: il Comune presiede all’interno di Eurocities (la principale rete di città europee) il tavolo di lavoro focalizzato sulle politiche urbane del cibo, in cui da anni il focus verte verso un ripensamento strutturale del sistema. Il Milan Urban Food Policy Pact, inoltre, ha permesso di avviare progetti e iniziative innovative, creando un piano d’azione e una visione di insieme delle dinamiche di spreco alimentare. Riavvolgiamo il nastro e poniamoci adesso una domanda: perché è essenziale ripartire da un’economia circolare? La Fondazione Ellen MacArthur fornisce la più completa e attendibile definizione del tema. Un’economia circolare è una “economia pensata per potersi rigenerare da sola tra flussi biologici, reintegrabili nella biosfera, e flussi tecnici, non altrettanto reintegrabili ma valorizzabili altrove”. Questo paradigma si basa sull’idea che sia necessaria una transizione dal modello economico lineare (quello a cui si faceva riferimento poco prima di estrazione, trasformazione, produzione, consumo e scarto) a un’architettura basata sulla circolarità, trasformando un gioco a somma zero in un bilancio positivo. Parlare di modello economico non è fallace: costruire un motore auto-rigenerante del cibo può produrre una serie di vantaggi non solo etici, ma anche e soprattutto ambientali e reddituali. Alcuni dati rilevanti vengono evidenziati dalla ricerca “Economia circolare del cibo a Milano“, ideata da Novamont e sviluppata dal centro di ricerca Està, con il patrocinio del Comune di Milano e della Fondazione Cariplo, come contributo alla realizzazione della Food Policy cittadina. La ricerca analizza tre ambiti che hanno grande impatto sul sistema alimentare: i rifiuti urbani legati al cibo, la redistribuzione delle eccedenze di cibo fresco in ottica solidaristica e i fanghi provenienti dalla depurazione delle acque reflue.
Il sistema dei rifiuti: modello Milano, genesi ed evoluzione
Sebbene il tema dell’economia circolare, come anticipato, rappresenti una priorità per la creazione di una società più sostenibile e attenta agli sprechi, per comprendere meglio come funzioni questo modello economico è necessario guardare al passato. Nel caso specifico di Milano, per esempio, è indubbio che qualsiasi tentativo di plasmare la vita cittadina nell’ottica di un orientamento circolare sarebbe fallito se, il cambiamento, non fosse stato veicolato dall’educazione dei cittadini stessi. Il modello Milano, infatti, si fonda su un sistema di gestione dei rifiuti migliorato e che si è evoluto negli anni. Nel 1929 la raccolta dei rifiuti a Milano era ancora in stato di crisalide, con gli operatori di S.P.A.I. che si aggiravano per le strade arrabattando prodotti di scarto per poi differenziarli a mano. Nel ’68 arriva il primo inceneritore in Italia in grado di produrre energia elettrica, un passo verso quella che sarebbe stata la vera rivoluzione del sistema di gestione dei rifiuti, avvenuta nel ventennio 1980-1990. Negli anni ‘80 infatti si inizia a pensare che riciclare sia una scelta migliore rispetto all’utilizzo delle discariche. Si parte, quindi, col riciclare materiali già recuperati: vetro, carta, indumenti e scarpe (in collaborazione con alcune Onlus). La svolta arriva però negli anni ‘90. I consumi aumentano e, in una Milano che accoglie più di due milioni di persone al giorno, nel 1991 il tasso di raccolta differenziata non raggiunge il 3%. Da qui la crisi dei rifiuti che diventa forza motrice verso la creazione del modello Milano. Con tonnellate di rifiuti da smaltire, la raccolta differenziata diventa obbligatoria: i condomini e le strade milanesi si attrezzano con campane e contenitori per l’immondizia mentre nasce il sistema CONAI, attraverso il quale avviene una forte industrializzazione della filiera. In circa un decennio la raccolta differenziata sale dal 10% a oltre il 30%, per poi aumentare fino al 50% con la raccolta dell’umido porta a porta introdotta nel 2004.
Da una città come Milano che, da fuori, potrebbe risultare poco attenta all’ambiente e non abbastanza green rispetto al resto del paese, non ci si aspetterebbe molto quando si parla di riciclo. E invece non solo Milano riesce a fare bene, ma diventa un’eccellenza soprattutto se paragonata a città di dimensioni simili. Il sistema di raccolta porta a porta è uno dei migliori, mentre la quantità di rifiuto umido pro capite raccolta è tra le più alte d’Europa. E a casa nostra? Secondo i dati nazionali IPSA nel 2018 Milano si colloca al primo posto tra le città con più di un milione di abitanti, con un livello di raccolta differenziata che raggiunge quota 58%. Nel confronto con il resto d’Italia va altrettanto bene: Milano si classifica seconda (dopo Venezia), con una produzione di rifiuti pro capite inferiore alla media del Nord, mentre è superiore alla media nazionale. Il segreto di un modello efficiente sono parametri ben precisi, con caratteristiche ben delineate. Per esempio, il sistema milanese è completamente svincolato dall’utilizzo delle discariche per i rifiuti primari, in anticipo rispetto alle direttive europee che fissano al 10% la soglia limite di collocazione dei rifiuti urbani in discarica, da raggiungere entro il 2035. Tutto ciò si integra in un ciclo complesso, che poggia le sue basi su un solido recupero porta a porta. I rifiuti vengono differenziati in primis dai cittadini, che li depositano in locali condominiali, contenenti bidoni specifici. Le frazioni vengono poi ritirate settimanalmente (ad esclusione dell’organico, prelevato due volte a settimana) dall’AMSA, in giorni e orari prestabiliti. Una macchina frenetica, attiva 7 giorni su 7, che oltre ad essere vantaggiosa per i milanesi fa bene anche all’ambiente e al portafoglio. Secondo Legambiente, infatti, il non utilizzo delle discariche permetterebbe alla città di Milano di risparmiare 32.000 tonnellate di CO2 ogni anno. In termini d’occupazione, invece, la filiera coinvolge circa 2.700 unità, generando più di 41 milioni di fatturato. E questo solo per la gestione della frazione organica.
Milano contro lo spreco alimentare: SogeMi e Milano Ristorazione vs. Recup e StartUp innovative
Tra il 2014 e il 2015 vengono definite le linee guida e le prime iniziative della Food Policy della città, con lo scopo di rendere il sistema alimentare milanese più sostenibile ed equo. Per realizzare questo obiettivo vengono coinvolti sia enti pubblici come Milano Ristorazione o SogeMi, di cui il comune di Milano detiene il 99,9% delle azioni, sia associazioni di volontariato private e non istituzionalizzate come Recup, la quale agisce nei mercati rionali della città.
La società Milano Ristorazione S.p.A. gestisce dal 1° gennaio 2001 la ristorazione collettiva della città, consegnando ogni giorno circa 85 mila pasti. Il metodo di distribuzione del cibo nelle scuole usato dalla società è quello del legame fresco-caldo; questo significa che ciò che viene preparato oggi deve essere consumato in giornata: il fattore problematico per quanto riguarda lo spreco alimentare è primariamente dettato dalla mancanza di refrigeratori nei luoghi in cui il cibo viene cucinato.
Oltre all’introduzione del “Sacchetto salva merenda”, che permette ai bambini della scuola primaria o secondaria di salvare gli avanzi usando sacchetti lavabili e riciclabili forniti dalla società stessa, e del progetto “Frutta a metà mattina”, che propone alle scuole di sostituire la merenda comprata dai genitori con la frutta di fine pasto degli studenti, le azioni messe in campo da Milano Ristorazione contano anche collaborazioni con la Fondazione Banco Alimentare, attraverso cui molta dell’eccedenza dei refettori delle scuole o aziende viene recuperata e redistribuita a strutture residenziali o a mense solidali: secondo i dati del progetto REDUCE, il cibo non consumato durante il pasto ammonta a quasi il 30% del totale.
La società SogeMi gestisce, invece, per conto del comune di Milano, i quattro mercati agroalimentari all’ingrosso della città (ortofrutticolo, ittico, floricolo e carni) e nota come le eccedenze derivino principalmente dal primo, di cui oltretutto il recupero deve avvenire in tempi molto rapidi: la Onlus deve infatti sempre essere presente nel momento in cui il sopravanzo si genera. Nonostante negli ultimi anni sulla società ci siano state inchieste che hanno portato alla messa ai domiciliari per “corruzione nell’ambito delle commesse” l’ex-direttore dell’Ortomercato Stefano Zani, le loro politiche in tema di spreco alimentare sembrano essere meno problematiche. Infatti, dal 2012 anche SogeMi ha sottoscritto un accordo con la Fondazione Banco Alimentare per la raccolta degli avanzi e la redistribuzione in luoghi della città in cui il cibo è un bene scarso, alimentando in questo modo un sistema più sostenibile.
Al contrario, il recupero del cibo nei mercati rionali risulta una pratica ancora poco diffusa, portata avanti soprattutto dall’organizzazione di volontari, tra tutti l’associazione Recup fa da padrona: realtà nata nel 2014 che attualmente arriva a sette mercati settimanali con una forza lavoro che si aggira intorno ai 125 soci (cresciuti molto durante la pandemia) e che solo nel 2020 ha recuperato oltre 25 tonnellate di cibo (con una media di 30 kg di cibo a mercato).
I volontari, come ci racconta l’attivista milanese Eleonora D’Elia, conoscono ormai da tempo i commercianti dei vari mercati, i quali donano all’associazione alimenti “brutti ma buoni” o eccedenze che questa recupera per le donazioni, con una bancarella autonoma all’interno del mercato in forma totalmente gratuita. I beneficiari sono spesso persone di diverse nazionalità e generalmente vengono coinvolti direttamente nell’attività di recupero: non si tratta, quindi, di un progetto che si conclude nell’obiettivo dell’economia circolare, ma che si traduce nella creazione di un tessuto sociale collaborativo e sensibile. “Ho deciso di diventare volontaria perché Recup promuove due valori che ritengo molto importanti: la lotta allo spreco alimentare e l’inclusione sociale” – sono le parole di Eleonora, che ci fanno capire come l’economia circolare sia un modello etico e virtuoso, necessario per Milano.
Con lo stesso spirito di coesione rionale era nata l’idea di aprire “Hub di quartiere” per la redistribuzione veloce di eccedenze alimentari in occasione di EXPO 2015, basato su circuiti veloci di raccolta e redistribuzione di prodotti edibili in eccedenza per sostenere le famiglie in stato di indigenza con bambini e adolescenti. Il primo Hub inaugurato a Milano è stato quello in Via Borsieri a inizio 2019, dove il comune ha messo a disposizione, tramite un bando pubblico, uno spazio inutilizzato di 72 mq. In questo luogo, Banco Alimentare della Lombardia ha creato una realtà che è stata in grado, solo in quell’anno, di collaborare con undici supermercati e recuperare quindi 77 tonnellate di cibo raggiungendo quasi 4 mila persone.
Per questo progetto futuristico ma allo stesso tempo così attuale collaborano anche molte persone nell’ambito delle start-up. Un’eccellenza italiana è sicuramente la start up Biova con la sua creazione di un modello innovativo di economia circolare che trasforma gli scarti del pane di GDO (Grande Distribuzione Organizzata) e HORECA (termine commerciale che si riferisce al settore dell’industria alberghiera) in una birra artigianale personalizzata.
Per concludere, citiamo Claudia Sorlini, Vicepresidente Fondazione Cariplo, la quale ha posto l’accento sulla crescente disuguaglianza e sull’inasprimento del tasso di povertà in città. Un concetto di povertà che affonda le proprie radici in molteplici aspetti della vita: alimentare, digitale, energetica, culturale. “Un primo passo per contrastare la povertà è ridurre gli sprechi e mettere in rete quello che c’è, perché possa essere utile alla comunità, generando anche un riflesso positivo sull’ambiente” – sostiene. Le città svolgono un ruolo cruciale nel mantenere il cibo al suo massimo valore ed eliminare gli sprechi. Possono diventare centri per la ridistribuzione degli alimenti in eccesso, per una florida bioeconomia, ma anche per una sensibilizzazione collettiva. L’economia circolare del cibo in ambito urbano può garantire un’impronta importante quanto decisiva: dalla riconversione di fattori strutturali (tecnologie, politiche decentralizzate e regolamentazione) alla riabilitazione di quelli comportamentali (carenza di educazione e consapevolezza).