È il settembre del 2022 e le immagini di un’enorme chiazza bianca nel Mar Baltico e di una nube di metano che copre i cieli del Nord Est europeo sembrano anticipare di tre mesi le scene del film White Noise. Secondo alcune stime il sabotaggio del Nord Stream, le cui cause sono ancora non sono ancora state accertate, ha determinato una fuoriuscita di metano che varia tra le 100mila e le 350mila tonnellate, l’equivalente di 14 milioni di tonnellate di Co2. È circa la metà delle emissioni annuali dell’Ecuador, un Paese da 18 milioni di abitanti.
Acqua, aria, e terra
Per quanto sia complicato fare delle stime a conflitto in corso, è probabile che anche la guerra in Ucraina avrà – e stia già avendo – forti ripercussioni sull’ambiente. Secondo il governo ucraino i danni ammonterebbero a 51 miliardi di dollari in un solo anno di conflitto. Le cifre aumentano se si considera anche il conflitto in Donbass, iniziato nel 2014 tra separatisti pro-russia e le forze armate ucraine. Nello stesso anno, l’allora segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, definiva l’ambiente come una «vittima silenziosa» della guerra.
Il Donbass è sede di circa 4500 imprese metallurgiche minerarie e chimiche, oltre che di 200 centri di stoccaggio di rifiuti industriali, scarti e sostanze tossiche prodotte dall’industria chimica, mineraria ed energetica. Secondo un articolo del Green European Journal, il bombardamento di questi siti, insieme al loro abbandono con conseguente cessazione di qualsiasi tipo di manutenzione, ha causato l’allagamento di diverse miniere che si sono riempite di sostanze tossiche e in alcuni casi radioattive, trasportate dall’acqua inquinata verso le falde acquifere, contaminando tutto il territorio. Secondo alcuni osservatori, se dovessero verificarsi incidenti che coinvolgeranno anche il fiume Siverskyi Donets, una delle principali risorse di acqua potabile del Donbass, i danni potrebbero esterdersi a tutta la regione del Mar Nero.
C’è poi il problema delle esplosioni. Oltre alle perdite umane, gli edifici colpiti dai proiettili liberano polvere di cemento, che può causare irritazioni e problemi respiratori. Molti edifici ucraini potrebbero contenere amianto, in quanto la sostanza notoriamente cancerogena è stata vietata nell’edilizia ucraina solo dal 2017.
La guerra ha ripercussioni anche sulla vita della fauna locale. Secondo Ivan Rusev, biologo marino ucraino, sarebbero morti oltre 50mila delfini a causa del rumore delle navi e dei sonar, che disorienta i cetacei a tal punto da causare collisioni con imbarcazioni, mine o causando danni acustici.
Un terzo delle foreste ucraine è andato danneggiato dall’inizio della guerra, un quinto delle aree protette del paese sembra essere irrimediabilmente compromesso. L’Ucraina contiene più di un terzo della biodiversità di tutta Europa, 70 mila specie animali e vegetali, messe in pericolo dalla guerra.
La conta dei danni
A novembre, durante la Cop 27 in Egitto, il governo ucraino denunciava che i gas serra emessi dalla guerra ammontassero a di 30 milioni di tonnellate, a cui si aggiungono più di 20 milioni di tonnellate dovute agli incendi, e una stima di 50 milioni di tonnellate per la futura ricostruzione. Un bilancio drammatico se paragonato al fatto che queste stesse emissioni le produce in un anno un paese come il Bangladesh, di 106 milioni di abitanti.
Il governo Zelensky, con il suo ministro dell’ambiente Ruslan Strilec, ha avviato una campagna per far pagare alla Russia i danni ambientali. I metodi per calcolarli sono molto complessi: per questo, come riporta il TIME, il governo ucraino si è dotato di una task force fatta di 80 esperti di ambiente tra scienziati, economisti e giuristi. La strategia è quella di raccogliere dati e informazioni sul campo da presentare alla corte delle Nazioni Unite.
La giurisprudenza internazionale però, presenta pochi precedenti di condanna per danno ambientale durante una guerra. Il diritto internazionale se ne è iniziato a occupare solo con i Protocolli addizionali della Convenzione di Ginevra del 1977. Il caso più noto è quello della controversa condanna all’Iraq per la responsabilità nella Prima Guerra del Golfo del 1991. L’Iraq durante fece esplodere circa 800 pozzi petroliferi in Kuwait, causando un enorme danno ambientale, con emissioni di Co2 che, secondo alcuni studi, raggiunsero dal 2% al 3% di tutte le emissioni antropiche globali di quell’anno. L’Iraq fu considerato il solo responsabile della devastazione ambientale, nonostante le evidenti co-responsabilità della coalizione a guida statunitense contro cui combatteva, e condannato al pagamento di 3 miliardi di dollari per «danni ambientali». Il paese arabo ha finito di pagare il suo debito – 52 miliardi in totale – a febbraio 2022. A oggi la Banca Mondiale, il governo ucraino e la Commissione Europea, stimano che ci vorrebbero circa 350 miliardi di dollari per la ricostruzione totale del Paese.
Dall’inizio del conflitto il dibattito pubblico sull’impatto a lungo termine delle armi ha riguardato le possibilità dell’arsenale nucleare o, più recentemente, dell’uranio impoverito. Anche le armi convenzionali, però, hanno conseguenze a lungo termine da non sottovalutare.
Si è discusso di come, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, si sia ritornati a tattiche da Prima Guerra Mondiale, soprattutto in termini di proiettili: fino a 50mila al giorno sparati sul fronte dell’Ucraina orientale. Un utilizzo così elevato di proiettili potrebbe avere effetti a lungo termine anche sul suolo, con conseguenze per la salute umana ancora da studiare. Uno studio, pubblicato sullo European Journal of soil science, ha analizzato i terreni di una zona al nord-est della Francia, soggetta a un fuoco di artiglieria minore rispetto ad altre aree analizzate in precendenza. I ricercatori hanno concluso che «nonostante le concentrazioni medie di piombo e rame rientrino nei limiti di legge per i suoli del Regno Unito e dell’Unione Europea, è probabile che l’arricchimento di piombo e rame nelle concentrazioni osservate abbia causato effetti sulla salute umana e ecotossicologici negativi».
Guerra e pace
La guerra crea devastazione anche in tempo di pace. L’impatto globale delle emissioni militari annuali è del 6%. Secondo studi recenti, l’esercito americano è uno dei maggiori inquinatori climatici per via del fatto che è la principale istituzione consumatrice di petrolio al mondo e la prima emettitrice di gas serra. Solo nel 2022 ha acquistato oltre 82 milioni di barili di petrolio.
Dal 2001 (anno di inizio della guerra al terrorismo di Bush) al 2017, l’U.S Army ha emesso 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra, di cui solo un terzo durante le operazioni di combattimento. La difesa europea ha un peso minore, restando comunque un settore che emette 25 milioni di tonnellate di Co2 l’anno.
Una visione di insieme del fenomeno è resa difficile dal fatto che gli Stati sono esonerati dal comunicare l’impatto ambientale delle attività militari. Nel 1997 durante le trattative per la ratifica del protocollo di Kyoto, su pressione degli Stati Uniti, il comparto bellico venne escluso dalla comunicazione dei dati, scindendolo quindi dal conteggio delle emissioni dello stato a cui appartiene. L’accordo di Parigi del 2015 ha provato a invertire rotta. Gli stati firmatari avrebbero dovuto rendicontare le emissioni dei reparti bellici, disponendo misure per far fronte al cambiamento climatico, ma anche per questo trattato si trovano delle criticità.
A seconda del grado di sviluppo economico del paese si pongono dei distinguo sulla obbligatorietà di questa regola, escludendo dal vincolo apparati militari con un grosso peso come quelli di Cina, India, Israele o Arabia Saudita. Ottenere informazioni da parte di giornalisti e organizzazioni internazionali è reso ancora più complicato quando gli stati non disaggregano il comparto militare da quello civile (protezione civile, ricerca e soccorso) o non forniscono informazioni per motivi di sicurezza nazionale.
Durante la Cop 26 di Glasgow del 2021 la NATO ha annunciato una strategia di rinnovamento interno per far fronte al cambiamento climatico con un programma fino al 2030. Durante il vertice NATO di Madrid nel 2022, il segretario generale Stoltenberg ha dichiarato un piano per azzerare le emissioni di gas serra del Patto Atlantico entro il 2050. Secondo l’organizzazione Conflict and Environment Observatory questo appare come un’operazione di greenwashing grossolana, che nasconde diverse incongruenze: la metodologia di tracciamento e conteggio delle emissioni non è stata resa pubblica. Inoltre, Stoltenberg si riferiva alla NATO come istituzione, ai suoi edifici e alle sue attività quotidiane, senza tener conto che è la difesa di ciascuno dei singoli stati membri appartenenti al Patto Atlantico ad essere il vero agente climalterante.