Questo articolo è parte di un progetto d’indagine e divulgazione editoriale nato dalla collaborazione con Greenpeace Italia

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Richieste ambivalenti

Il brand activism è un fenomeno di nascita recentissima. Le fonti bibliografiche ne segnano la prima comparsa intorno alla metà degli anni dieci del ventunesimo secolo. Kotler e Sarkar, gli autori di “Brand activism — Dal proposito all’azione”, volume che ha per primo ha significato l’avvento del termine nel campo del linguaggio comune, lo descrivono come un modello di business in cui l’azienda e la marca operano come attori del mercato, ma anche come promotori dei processi di cambiamento richiesti dalla società moderna grazie al ruolo attivo assunto in un variegato sistema di dimostrazioni o iniziative. Per le giovani generazioni l’incontro con brand e aziende nella quotidianità è inevitabile, ed è divenuta oramai una consuetudine. In un contesto iper-capitalizzato, sia online che offline, la vicinanza e la massima interazione tra cittadino-consumatore e corporation è la chiave per il profitto aziendale. Il continuo interfacciarsi tra i due attori comporta richieste da ambo i lati: i cittadini-consumatori, in quanto parte sociale, richiedono lo sviluppo di un’etica da parte delle aziende, che quindi intraprendono programmi per essere più socialmente e politicamente impegnate, ma di riflesso, questa nuova dedizione aziendale si sovrappone a competenze che originariamente sono attribuite allo stato. L’azienda diviene quindi in grado di trasmettere maggiore competenza anche per via di un maggior raggio d’azione disponibile e grazie all’utilizzo di tecniche di marketing – come il CSA, Corporate Sociopolitical Activism – funzionali a sostenere le necessità sociali in continua evoluzione. L’impalcatura sottostante all’impegno sociale dell’azienda, tuttavia, permane lo stesso antecedente all’ingresso di temi sociali tra gli ordini del giorno dei CDA aziendali: l’ottimizzazione dei profitti per sopravvivere nel mercato. Il ruolo dell’azienda è però alterato per via della sovrapposizione di compiti pubblico-privato, per cui le unità aziendali sono spinte a occuparsi ampiamente della cosa pubblica: intento da considerare molto nobile ma che comporta numerosi problemi e contraddizioni. 

Dallo scopo all’azione, dall’attivismo alla responsabilità 

La genesi della questione non è semplice. La diffusione di un clima di sfiducia nei confronti delle realtà governative preposte alla soluzione di un contesto di emergenze ambientali e civili in continua crescita ha fatto da apripista all’evoluzione della figura del consumatore, il quale vede nella dimensione dell’iniziativa privata un valore significativo. Dunque, le scelte d’acquisto sono commisurate al nuovo valore dato all’iniziativa privata e al fatto che il consumatore ritiene di poter contribuire a indirizzare l’evoluzione della realtà sociale, anche nella ristretta influenza dei propri acquisti. 

La richiesta avanzata alle aziende non è quella di un’azione dalla generica valenza sociale o umanitaria, come ad esempio la creazione di risorse comuni o investimenti nella ricerca sanitaria, ma una presa di posizione ben definita nei riguardi delle tematiche sociopolitiche del momento e l’attuazione di iniziative in quella direzione. 

La prima operazione si inscrive nel quadro di quella che in letteratura si definisce Corporate Social Responsability (CSR). Si descrive così, secondo uno studio dei professori Charles

Kang, Frank Germann e Rajdeep Grewal, il sistema di «azioni aziendali che atte a operare il bene sociale al di là di quanto formalmente richiesto dalla legge». 

Alla seconda operazione si fa invece riferimento come CSA. La principale differenza tra le due realtà è quella della direzionalità. La prima si innesta nel campo della condivisione: il focus è una vastissima parte del panorama sociale, e con esso (sebbene magari tiepido) è vasto il consenso sociale, come l’investimento di risorse aziendali a favore del diritto all’istruzione. La seconda, invece, proprio a causa della sua natura squisitamente partigiana, si innesta nel campo della polarizzazione: il responso sociale è spesso dicotomico, e la sua manifestazione è frequentemente appassionata, come può avvenire a seguito di un pronunciamento aziendale sui diritti omosessuali. Una simile strategia di azione sul mercato è connaturata a un certo grado di incertezza rispetto i plausibili esiti; tutto dipende dal livello di accordanza dimostrato dagli stakeholders – intesi come l’intera platea dei soggetti che possono trovarsi ad entrare in contatto con l’operazione di CSA: clienti, impiegati, realtà governative – con il sistema valoriale in questione. D’altra parte, il vantaggio di un’azione di CSA sta spesso nella sua fondamentale semplicità d’implementazione, almeno quando questa ha la forma di una dichiarazione, di una lettera aperta, di un comunicato, di uno spot pubblicitaria, e quindi nel limitato investimento economico destinato alla causa. 

Il consumatore ha sempre ragione 

Malgrado i rischi di un’operazione di CSA siano maggiori di quelli di una di CSR, la prima è divenuta un sottotesto diffusissimo nel quadro dell’offerta pubblicitaria globale. In un recente studio di un team di ricerca guidato della professoressa Yashod Bagwat dell’università di Neeley, le ragioni dell’affermazione di questo modello sono indagate analizzando 293 azioni di CSA operate da 149 marchi o aziende negli Stati Uniti d’America

I risultati guardano alla risposta agli eventi di CSA in termini di andamento delle vendite e reazioni degli investitori in funzione del grado di deviazione dai valori dei vari stakeholders. Quanto emerge è che in generale non è importante l’accordanza con tutti gli attori coinvolti, è sufficiente quella con i consumatori. In generale, «I risultati suggeriscono che ci sono molti casi in cui le aziende possono impegnarsi in CSA e raccogliere ricompense finanziarie anche quando non sono allineate con tutte le loro parti interessate. Questi benefici possono aumentare l’andamento delle azioni, crescita delle vendite o entrambi.» 

Il punto fondamentale è l’allineamento con i valori dei clienti e dei consumatori. Se l’azienda intercetta correttamente i valori, i sentimenti del proprio gruppo di clienti, schierarsi nettamente in quella direzione non può far altro che aumentare l’appetibilità del prodotto. In definitiva, i manager aziendali possono aspettarsi una risposta positiva da finanziatori, azionisti e dalle vendite anche se organi legislativi e impiegati dell’azienda divergono sui valori espressi da un’azione CSA, poiché il terzo dei tre principali stakeholders dell’azienda, il consumatore, rappresenta l’unico soggetto con cui e veramente fondamentale essere allineati. 

Dominio pubblico-privato 

Da una parte abbiamo le azioni governo-amministrative, talvolta fumose e farraginose nella loro esecuzione, e dall’altra una forma di comunicazione aziendale spesso più dinamica e innovativa, che si fa portatrice proprio di valori richiesti dalla società – o da una parte di essa. Assistiamo, dunque, a una mescolanza tra linea aziendale e finalità delle istituzioni, che in

origine hanno obiettivi diversi ma complementari. La finalità delle istituzioni è, semplificando, realizzare ciò di cui una comunità necessita e che gli individui singolarmente non riescono a portare a termine, e in secondo luogo affrontare questioni che non possono essere pienamente risolte dal mercato; mentre il mondo aziendale pone l’attenzione anzitutto sulla creazione di profitto attraverso tecniche di marketing. Considerata la convergenza pubblico-privato, ora i cittadini-consumatori chiedono anche alle corporation di intraprendere percorsi di attivismo sociale e le aziende, di conseguenza, si adeguano a tale richiesta pur di – come evidenziato in precedenza – allinearsi con la propria base di consumo ed evitare eccessive critiche etico-morali. Al contrario e ironicamente, ma non del tutto, il presidente di uno stato è spesso considerato come il CEO della nazione, spinto da sentimenti populisti e di efficienza che portano al conseguimento di obiettivi per accontentare la maggioranza degli individui attraverso risultati il prima possibile visibili, sfociando in una contrazione dei ruoli pubblici nelle istituzioni in quanto tali. 

Questa concatenazione causa-effetto suggerisce chiaramente che – ammesso che già non lo fosse abbastanza – il rapporto tra consumatore e produttore è presente e diretto anche nel momento in cui una certa fascia sociale decide di far emergere talune criticità che possono essere in contrasto – o precedentemente nemmeno considerate – dai valori aziendali. 

Punti precedentemente invisibili, emergono come di primaria importanza, cosicché l’azienda possa innalzarsi come alternativa e diventi promotrice di giustizia per conto dei consumatori. «Le aziende individuano la sensibilità dei loro consumatori e delle loro consumatrici anche su questi temi; da un lato, cercano di fare leva su esigenze che sono sempre più spesso manifestate, dall’altro cercano invece di costruirle, intensificandole o producendole ex novo, perché la comunicazione riesce anche a produrre bisogni e desideri, dichiara a Scomodo Giovanna Cosenza, professoressa ordinaria di semiotica all’università di Bologna. 

Questa tecnica – non certo innovativa, ma spesso più invisibile o affiliata a tematiche meno divisive – ha effetto sui consumatori che, come dimostrato dalle statistiche del report Edelman Trust Barometer 2021, in 18 dei 27 stati presi in considerazione, la fiducia dei cittadini risiede maggiormente nelle corporation. Il fenomeno ha un’estensione quantitativa consistente. Secondo i dati raccolti in 32 stati nei vari continenti dall’azienda francese di consulenza nella comunicazione d’impresa HAVAS, il 55% dei consumatori crede che le aziende abbiano un ruolo più importante dei governi nel creare un futuro migliore, e il 77% preferisce acquistare i prodotti di quelle con cui condivide gli stessi valori. Secondo l’Osservatorio Civic Brands di Ipsos Italia, il 63% degli intervistati ritiene giusto che marchi e aziende, oltre a vendere prodotti e servizi, agiscano in prima persona rispetto a questioni sociali rilevanti. La miglior sintesi è quella di Richard Edelman, CEO dell’omonima agenzia di comunicazione: «I brand sono ora spinti ad andare oltre i loro classici interessi commerciali e divenire attivisti […]». Così, il comportamento sociale dell’impresa diventa una variabile determinante nelle decisioni d’acquisto: «[…] un acquisto si fonda sulla volontà del brand di vivere i propri valori, agire con determinazione [in funzione di essi] e, se necessario, dirigersi nell’attivismo». Eloquente diventa, dunque, la necessità che l’azienda concretizzi i valori dichiarati in azioni coerenti ad essi, per spalleggiare l’intelaiatura etica su cui si fondano, oggi, le scelte d’acquisto dei consumatori. 

Oltre i confini 

In questo direzione, le aziende che propongono campagne pubblicitarie e di comunicazione come alternative e innovative, disponibili a schierarsi riguardo a questioni sociali divisive,

non solo sono viste come possibili risolutori, ma si appropriano anche concettualmente di tematiche che, precedentemente, erano messe in luce ed elaborate in ambienti di tipo istituzionale. In questo senso, seppur l’azienda si esponga maggiormente all’opinione pubblica e divenga – in senso lato – maggiormente trasparente agli occhi del consumatore, questa ha ormai politicizzato il mercato, mostrandosi come l’attore maggiormente competente nell’ambito della promozione degli interessi del consumatore-cittadino. Anche se l’azienda non è immune da critiche, non è biasimata quanto le istituzioni; anche se sottoposta a ispezioni, i suoi errori risultano meno gravi per via della nuova reciprocità sociale instaurata col consumatore, e, in secondo luogo perché l’azienda dispone di mezzi di comunicazione più elastici, che le permettono di esporsi in quanto entità complessa e meno definibile, a differenza del rappresentante politico. Le corporation, dunque, non si esimono più dall’obbligo non scritto di prendere posizione sociale, ma è fondamentale ricordare un punto essenziale: le aziende non sono corpi intrinsecamente democratici e perciò non hanno – attualmente – al loro interno un sistema di valori che si possa considerare perfettamente sovrapponibile con la democrazia. Spetterebbe teoricamente allo Stato definire i confini di azione dell’interesse privato di modo che rappresentando le proprie istanze si inserisca in un quadro che ottimizzi l’utilità pubblica, ma sempre più spesso le risorse a disposizione del pubblico e il loro utilizzo non riescono a ottenere i risultati previsti dalla convivenza tra sistema economico liberale e stato democratico. 

L’azienda sostituisce il concetto di complementarietà tra minoranza e maggioranza, con quello di profitto in base alle richieste della maggioranza dei consumatori: quindi non discute le necessità dei cittadini con i cittadini, ma asseconda i consumatori, studiandone attentamente i comportamenti; con la differenza che per essere un consumatore, è mostrare una cerchia ristretta di bisogni, mentre le necessità della cittadinanza sono, potenzialmente, molto più ampie. Di conseguenza, la richiesta sociale che potenzialmente induce maggior profitto, è quella che l’azienda compiacerà, mentre questioni minoritarie andranno marginalizzate, considerata la priorità di lucro aziendale che definisce l’agenda sociale dominante. 

Airbnb Polimorfo e i Greenwashing files 

Airbnb – la celebre piattaforma che mette in contatto persone che cercano alloggi di brevi periodi con altre che dispongono di spazi affittabili – è un’azienda con un’espansione capillare e la sua intraprendenza in ambito sociopolitico è riscontrabile in molte iniziative. Von Briel e Dolnicar, ricercatrici dell’università del Queensland, in Activism, lobbying and corporate social responsibility by Airbnb – before, during and after COVID-19, illustrano come l’azienda sia impegnata in iniziative con responsabilità sociale, tra le tante: incoraggiare gli studenti e le studentesse a raggiungere una migliore istruzione, rilasciando anche alcune borse di studio; il programma Open home col fine di utilizzare i propri spazi per persone che ne necessitano. Accompagnano a queste attività, azioni di lobbying: finanziamento di campagne elettorali; strategica collaborazione con le amministrazioni e – caso esemplare che conferma ciò che è stato detto finora – il sito web Airbnb Policy Tool Chest: uno spazio che suggerisce ai legislatori su come meglio regolare gli affitti a breve termine. Vediamo, dunque, come la sovrapposizione pubblico-privato sia effettivamente riscontrabile, così l’azienda si afferma non solo come portavoce di problemi sociali, ma suggerisce il legislatore, prendendone le redini. Infine, Airbnb ha intrapreso azioni categorizzabili come CSA, come ad esempio attivismo riguardo la parità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, oppure donazioni a supporto del movimento Black Lives Matter.

Un sondaggio tenuto sempre dagli stessi autori, conferma una distinzione di conoscenza sulle varie attività da parte di stakeholders. Gli host sono molto più consapevoli di tali attività rispetto ai guest della piattaforma, inoltre le attività CSR sono più esposte rispetto alle CSA. Ad esempio, alla domanda «Sapevi che Airbnb ha fatto azioni di lobbying per combattere i senzatetto?, la percentuale di conoscenza è 42% per categoria host e 7% per quanto riguarda la categoria guest

Rilevante è anche la traiettoria percorsa dalle iniziative basate sull’attivismo aziendale: nel 2017 vi è stata una notevole implementazione di tali attività, per poi decadere fino a diventare pressoché invisibili. Nel 2020, con l’emergenza sanitaria – che tra le altre cose, ha causato all’azienda una perdita di un miliardo di dollari – il CEO Chesky dichiara che il futuro dell’azienda è stato ripensato, sostenendo la necessità di un ritorno alle proprie origini. In un’intervista a Bloomberg spiega: «[…] Penso che tra un anno le persone [che] guarderanno Airbnb, invece di vedere solo immobili, vedranno host. Diranno che Airbnb non è solo un mercato, Airbnb è una comunità». Evidente è l’appropriazione semantica del concetto di comunità applicato al business, dove in vista della permanente emergenza sociale, viene predicato uno slittamento in senso comunitario, quasi fraterno, con la ripresa di un più acceso attivismo. Se l’esempio di Airbnb è funzionale a mostrare come nei fatti le tecniche analizzate siano applicate, abbiamo altri casi, ristretti prettamente alla responsabilità sociale che turbano maggiormente visto l’effettivo e tangibile distacco tra comunicazione e azione. 

Grazie ai Greenwashing files di ClientEarth, un ente di beneficenza che si occupa di diritto ambientale, siamo in grado di esaminare attentamente come l’intraprendenza per la difesa ambientale di alcune tra le maggiori multinazionali di combustibili fossili sia categorizzabile meramente come “green marketing” per adeguarsi alle necessità etiche del mercato, seppur tali pubblicità non sempre combaciano con la realtà. Nel report le aziende sottoposte a verifica sono Aramco, Chevron, Drax, Equinor, ExxonMobil, INEOS, RWE, Shell, Total. Il report è ampio e dettagliato, ma è utile riportarne qualche frammento per inquadrare – attraverso le pratiche citate finora – le loro azioni. Aramco, che si stima sia responsabile di oltre il 4% di emissione di gas serra dal 1965, è membro della Oil and Gas Climate Initiative (OGCI), un gruppo di aziende petrolifere che vogliono sviluppare tecnologie per ridurre le emissioni – azione categorizzabile come CSR. In realtà il portafoglio di investimenti del gruppo è concentrato su progetti come l’utilizzo della stessa anidride carbonica per un uso continuativo e circolare, e quindi per produrne altra con la stessa. Non a caso Aramco mira a trovare nuove fonti di approvvigionamento: i suoi conti elencano attività di esplorazione e valutazione per un totale di $5.6 miliardi che hanno portato alla scoperta di otto nuovi giacimenti di petrolio e gas tra 2019 e 2020. Nonostante ciò, le campagne pubblicitarie dell’azienda affermano di voler affrontare la sfida climatica in quanto espressione della loro filosofia. 

Senza alternative, ma con immaginazione 

Permane, imperante, la domanda se esista, quindi, un’alternativa sia etica che competente. Un organismo etico, per un consumatore o una consumatrice, significa che esso agisca in un’ottica in cui il fine ultimo non sia solo il profitto, ma che accompagni il proprio sviluppo con equità, onestà, visione. E, invece, competente, comporta la capacità di portare a termine il proprio compito ottenendo il risultato migliore con il minor utilizzo di risorse. Come può, un’azienda che attualmente possiede come dominante il fattore competenza, integrare al suo interno la componente etica senza negare spazio alla prima? Dopotutto, nell’attuale istantanea, il fatto di porsi come alternativa, non può che risultare che un separé, una scelta

compiuta anzitutto in funzione di necessità commerciali così da rinvigorire la propria base di consumo. La contaminazione tra meccanismi privati e pubblici, ad oggi, non ha portato solo conseguenze nefaste, ma l’attuale panorama rimane pieno di contraddizioni, che è necessario rilevare per definire confini valicabili solo in certe circostanze, cosicché la partecipazione alla vita pubblica e sociale avvenga in modo consapevole e responsabile.