A Torino, in Corso Brunelleschi, c’è un edificio giallo squadrato, non troppo alto. Dietro si trovano delle unità abitative divise in sei blocchi, circondate da recinzioni e muri alti fino a cinque metri. Tutta l’area è praticamente blindata. È il centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Torino, il terzo più grande d’Italia. È stato chiuso per diversi mesi ma ora c’è la possibilità che ritorni in attività.
I CPR sono strutture dove vengono trattenuti gli stranieri irregolari che non possono essere espulsi immediatamente dal Paese mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento. Il trattenimento nel CPR, secondo le disposizioni contenute nel “decreto Cutro”, va da un minimo di 30 giorni ad un massimo di 90, secondo la decisione del questore. In casi particolari può essere prolungato di altri 45 giorni.
Il CPR di Torino è stato aperto nel maggio 1999 e fino al 2014 fu gestito dalla Croce Rossa. Passò poi nel 2015 ad una Associazione Temporanea di Imprese (ATI) e successivamente dal 2015 al 2021 è stato gestito da Gepsa, una multinazionale di origine francese che opera in diversi settori, mentre nell’ultimo anno da ORS. La capienza regolamentare è di 210 posti ma, secondo l’ultima relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al 31/12/2022 quella effettiva era di 105 persone. Secondo un rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (CILD), a seguito dell’approvazione di un decreto ministeriale del 20 novembre 2018 si è ridotto drasticamente il monte ore settimanali degli operatori dedicati ai servizi della persona, peggiorando le condizioni dei trattenuti: dopo il decreto nel CPR risultavano essere presenti 4 operatori diurni e 2 notturni, le ore di psicologo disponibili a settimana sono diminuite da 54 ore a 24 ore, così come l’assistenza sociale. La mediazione linguistica è passata da 108 ore a 48 ore e l’insegnamento della lingua è passato da 36 ore settimanali a zero. Si parla di attività necessarie per il trattenuto, che servono a non aggravare il divario con il Paese ospitante e le sue condizioni fisiche e mentali.
Dell’enorme struttura del CPR si nota un complesso situato all’interno del perimetro detentivo, l’“Ospedaletto”: contiene dodici cellette da due posti letto separati da alte inferriate sia ai lati che sopra la testa. Si accede ai locali attraverso un piccolo cortile, anche questo sovrastato da un’alta rete metallica. È una delle aree più critiche della struttura, teatro di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei trattenuti.
L’Ospedaletto nasce come una struttura per l’isolamento sanitario: i detenuti che entrano per la prima volta nel CPR devono essere sottoposti ad una serie di esami condotti dal medico dell’Asl o dell’Azienda Ospedaliera per verificare le condizioni di salute (in particolare le condizioni di salute mentale), e qualora risultino avere delle patologie vengono trasferite nell’Ospedaletto.
Il problema, come si legge in un rapporto del Garante dei diritti di giugno 2021, è che i detenuti che presentano patologie non vengono sempre seguiti adeguatamente dal personale del CPR. L’Ospedaletto, inoltre, è stato utilizzato anche per motivi disciplinari e punitivi, non essendoci telecamere e telefoni per comunicare tutto può succedere e nessuno sa niente: per esempio, i migranti in isolamento a volte vengono abbandonati nella struttura per oltre 15 giorni, alcune volte anche per mesi.
L’Ospedaletto è stato chiuso nel 2021 dopo la morte di due trattenuti: Hossain Faisal e Moussa Balde. Hossain Faisal, 32 anni, era stato portato dalla Puglia fino a Torino, dove è stato rinchiuso per quasi cinque mesi nell’Ospedaletto per poi morire di arresto cardiaco. Moussa Balde, 23 anni, invece è stato portato nel CPR piemontese dopo essere stato vittima di pestaggio da parte di due italiani. Successivamente viene rinchiuso nell’Ospedaletto perché pare sia affetto da scabbia – successivamente si è scoperto che in realtà si trattava di una psoriasi, una malattia non contagiosa – ma ci rimane per troppo tempo. Si suicida tra il 22 e il 23 maggio sotto gli occhi di nessuno perché era stato abbandonato a sé stesso dagli addetti del CPR. E’ tristemente il caso per eccellenza del CPR di Torino, perché dal suo suicidio si è acceso un riflettore sulla struttura che mostrava finalmente l’inumanità di questo luogo.
Le rivolte di febbraio raccontate dai reclusi
Come emerge dai rapporti del CILD, dell’ASGI e del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, lo stabile di Corso Brunelleschi ha rappresentato a lungo una ferita aperta nello Stato di diritto, un luogo nel quale viene sistematicamente violata la dignità umana.
«È un posto che non auguro a nessuno» racconta in anonimo alla Rete “No Cpr Torino” una persona trattenuta nel CPR piemontese e poi rimpatriata. «C’è gente che veramente lì ho visto distrutta, gente che si tagliava sempre, gente che non abbiamo più visto dopo quello che gli è successo, gente che si è impiccata, gente che saliva sul tetto per suicidarsi perché non ne poteva più di quelle torture (…) Sei peggio di un animale, un animale almeno ha i suoi diritti».
Le condizioni e i trattamenti inumani a cui i detenuti del CPR di Torino sono sottoposti provocano, durante il mese di febbraio, violente rivolte e incendi che causano l’inagibilità e la chiusura del centro nei primi mesi di marzo. Ma già alcuni mesi prima, tra settembre e dicembre del 2022, diverse proteste coinvolgono alcune aree dello stabile.
A peggiorare la situazione sono i numerosi sbarchi avvenuti nell’isola di Lampedusa durante la fine dell’estate del 2022. Alcune delle persone sbarcate vengono trasferite nel CPR di Torino, rendendolo ancora più affollato.
Numerosi, in quei mesi, sono anche gli scioperi della fame intrapresi collettivamente dai migranti reclusi, utilizzati per denunciare lo stato del cibo che frequentemente arriva freddo, scaduto, marcio, pieno di formiche e insetti dentro. Secondo le testimonianze raccolte dalla Rete “No Cpr Torino”, inoltre, all’interno dei pasti vengono nascosti anche degli psicofarmaci con l’intento di tenere sedati i detenuti (Scomodo non ha potuto verificare indipendentemente questa informazione. Diverse fonti però confermano situazioni di abusi di psicofarmaci all’interno del CPR di Torino).
Il 4 e il 5 febbraio i detenuti, stanchi dei maltrattamenti, insorgono in modo determinato. La protesta raggiunge il culmine la sera del 4, quando l’incendio appiccato dai migranti rende inagibile gran parte del centro. La mattina seguente, in seguito agli incendi e alla rivolta, la città si sveglia con una capienza della sua struttura di detenzione amministrativa ridotta di due terzi.
Secondo quanto riportato dal blog “No Cpr Torino”, i giorni seguenti è continua la violenza vendicativa dell’ente gestore e degli organi di polizia nei confronti dei migranti. Inoltre, nell’ormai unica area rimasta agibile del centro scoppia un’epidemia di scabbia, che fa precipitare la situazione. Ma la scintilla che dà vita di nuovo alla rivolta è l’ennesimo episodio di violenza poliziesca: sempre secondo quanto riportato dalla rete “No Cpr Torino”, che in quei giorni seguiva da vicino le rivolte ed era in contatto con i detenuti, un ispettore pesta un migrante scaraventandolo a terra per poi schiacciargli il collo con un ginocchio impedendogli ogni possibilità di respirare. Alcuni reclusi intervengono e scoppia la protesta che ha distrutto l’ultima area rimasta agibile del centro. Così, nei primi giorni di marzo, il CPR di Torino, dopo 24 anni dalla sua istituzione con la Legge Turco-Napolitano, chiude per la prima volta nella sua storia.
I lavori di ristrutturazione dello stabile di Torino
Tuttavia, nonostante tutte le problematiche legate al sistema della detenzione amministrativa, il Governo e le aziende private si stanno muovendo velocemente per ristrutturare e riaprire uno dei CPR più grandi e redditizi d’Italia. Andando ad ignorare, così, anche il voto del Consiglio Comunale di Torino che, in seguito alla chiusura del centro, si è espresso in larga maggioranza a favore di un superamento del sistema dei CPR.
Attualmente, per la ristrutturazione del stabile di Corso Brunelleschi non è uscita nessuna gara d’appalto pubblica e il Ministero degli Interni, stazione appaltante dei lavori, ha riferito ad Altrəconomia di non poter fornire informazioni riguardo le tempistiche e la tipologia degli interventi in programma, nemmeno agli interlocutori privilegiati del territorio.
Per adesso si sa che due aziende, l’Operosa spa e Lavorincorso, stanno finendo i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria appaltati dal Ministero delle Infrastrutture prima delle rivolte di febbraio.
Inoltre sono in corso, come dichiarato dalla prefettura di Torino ad Altrəconomia, delle «attività tecniche», probabilmente dei sopralluoghi, finalizzati ai lavori per la riapertura del centro. In sostanza, né prefettura, né il provveditorato interregionale (ufficio locale del Ministero delle Infrastrutture), né il Ministero degli Interni hanno fornito, per adesso, alcuna indicazione specifica sui lavori di riapertura del centro del capoluogo piemontese, nonostante le richieste fatte da testate giornalistiche come Altrəconomia e dalle istituzioni locali.
Questioni di soldi
Tutto questo si inserisce nel quadro più ampio della gestione dei Cpr. Come si legge nel già citato rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, infatti, dal 2014 questa inizia ad essere appaltata non più soltanto a cooperative, ma anche a società private che lucrano sulla vita dei migranti trattenuti. Recita il rapporto: «la gestione privata di questi luoghi, privilegia per forza di cose i vantaggi economici delle aziende, che pertanto lucreranno sul non rispetto dei diritti dei detenuti e del personale che impiegano. Si tratta di uno scenario inevitabile, perché ha a che vedere con la natura stessa del fare impresa».
Sempre dallo stesso documento si possono notare due tendenze nella gestione dei CPR: da un lato la minimizzazione dei costi da parte dello Stato su servizi sanitari, servizi di mediazione linguistica e servizi di informazione normativa tra il 2017 e il 2021; dall’altro la massimizzazione dei profitti da parte degli enti gestori.
Dopotutto, le singole prefetture nelle gare per la gestione dei centri aggiudicano gli appalti in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa rispetto alla base d’asta. Questo significa che gli enti gestori presentano offerte al ribasso riducendo al minimo il costo del personale e le varie voci di spesa come lavanderia, pulizia, farmaci, cibo, sicurezza.
Inoltre, conclude il rapporto CILD, uno degli aspetti più controversi è dato dal fatto che l’ente gestore è retribuito in base non alla capienza teorica ma a quella effettiva: ciò significa che il guadagno è direttamente proporzionato al numero di persone detenute. Questa modalità di retribuzione potrebbe portare, secondo la Coalizione, alla tendenza degli enti gestori a trattenere illegittimamente persone incompatibili con lo stato di detenzione, al solo fine di aumentare i propri profitti.
Il caso di Torino mostra appieno la volontà del Governo di investire e ampliare il ricorso ai CPR, anche a costo di andare contro le istituzioni locali. Con la Legge di Bilancio 2023 e con il cosiddetto Decreto Cutro, il Governo italiano ha aumentato gli investimenti destinati alla «costruzione, l’acquisizione, il completamento, l’adeguamento e la ristrutturazione di immobili e infrastrutture destinati a centri di trattenimento e di accoglienza», per un totale di 35 milioni di euro in più nel triennio 2023-2025.
Come evidenzia anche l’ultimo rapporto dell’associazione Migreurop, risalente a settembre 2020, gli Stati dell’Unione europea negli ultimi anni hanno via via intensificato il ricorso alla detenzione amministrativa come strumento di gestione del fenomeno migratorio. Nonostante le differenti modalità e politiche in materia di immigrazione, a seconda dei diversi Paesi membri, si osserva una tendenza comune: un utilizzo sempre maggiore della «detenzione informale o de facto, […] in cui le persone sono detenute con lo scopo di deportarle il più velocemente possibile in un altro Paese». Anche se, nel 2022, meno del 50% delle persone transitate nei Cpr è stato effettivamente rimpatriato. Per gli altri una «privazione della libertà ingiustificata», come ha sottolineato Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.