Censura digitale

Le responsabilità dei colossi del web

Con il recente ban di Donald Trump da tutte le piattaforme social, il dibattito sulle responsabilità dei colossi del digitale si è riacceso. In questo approfondimento proviamo a dipanare la matassa che tiene insieme il diritto di queste aziende private di gestire i propri contenuti e la tutela, necessaria, della libertà di espressione. Due estremi tra i quali, al centro, si cela una complessa scala di grigi: che racchiude, il complesso rapporto tra le piattaforme e il potere politico, e le evoluzioni più recenti del mondo dell’informazione.

Alcuni utenti sono più uguali di altri

Anche i capi di stato devono sottostare alle regole dei social se vogliono continuare a fare politica online

Illibertà digitale

Con l’inizio del 2021 si è aperta una nuova fase nel dibattito sull'(ab)uso dei social media da parte di personaggi politici e sulla necessità di una regolamentazione e moderazione dei contenuti e dei profili presenti su queste piattaforme. A catalizzare la discussione sono stati due episodi molto significativi, avvenuti a distanza di pochi giorni e in contesti diametralmente opposti: il caso dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e quello del presidente/dittatore ugandese Yoweri Museveni. Il ban a tempo indeterminato dell’ex presidente americano da tutti i social media, in seguito ad alcuni suoi tweets che legittimavano e incoraggiavano i disordini avvenuti il 6 gennaio a Capitol Hill, ha riscosso una forte attenzione mediatica in tutto il mondo. Nonostante l’uso sconsiderato che Trump aveva fatto in passato di Twitter, lanciando messaggi altrettanto violenti e pericolosi di quelli del 6 gennaio, le aziende della Silicon Valley non erano mai arrivate a prendere provvedimenti così drastici, creando un precedente problematico.       

Per quanto riguarda il contesto ugandese invece, il 9 gennaio Facebook aveva rimosso alcuni fake accounts pro-Museveni legati alla sua campagna elettorale, con l’accusa di manipolare il dibattito pubblico in vista delle elezioni. È stato il presidente tuttavia ad avere l’ultima parola vietando Facebook all’interno del paese a tempo indeterminato dopo averlo accusato di “arroganza” e imparzialità. In Uganda, la repressione dell’opposizione politica e i tentativi di censura dei social media non sono una novità per il regime di Museveni. Le personalità problematiche di Trump e Museveni hanno contribuito a generare confusione fra l’opinione pubblica circa la legittimità delle azioni intraprese contro di loro da parte delle aziende, riportando l’attenzione internazionale su un tema controverso: è giusto che i Capi di Governo abbiano la possibilità di comunicare direttamente col loro elettorato sulle piattaforme social? Un uso imprudente di questi canali d’informazione può mettere in pericolo i principi democratici di uno stato? In che modo l’uso massiccio di queste piattaforme, soprattutto nelle campagne elettorali, influenza le scelte degli elettori?

L’uso dei social media da parte delle istituzioni ha sicuramente cambiato in maniera radicale l’approccio comunicativo fra politici ed elettori: i canali di divulgazione sono diventati più diretti ed economici; i politici possono condividere in tempo reale sui loro profili personali punti della loro agenda politica, ma anche attimi di quotidianità, mostrandosi nel loro lato più umano e aumentando così l’empatia e la connessione con i propri elettori. Se da un lato questo avvicinamento, l’accessibilità, la rapidità di diffusione delle notizie e l’abbattimento dei costi legati alle campagne elettorali portano con sé un grande potenziale democratico per la politica del futuro, è stato notato come questi cambiamenti comportino anche degli aspetti negativi. In un saggio di Ronald Deibert (The Road to Digital Unfreedom: Three Painful Truths about Social Media) sul Journal of Democracy, viene analizzato il ruolo dei social media nell’ avvantaggiare le strategie di comunicazione delle fazioni più estremiste ed autoritarie e nel minacciare in generale i sistemi democratici. I social media stanno sempre più diventando canali d’informazione, ma la qualità e l’attendibilità delle informazioni condivise viene spesso messa in discussione. 

Secondo Zack Beauchamp (in Social media is rotting democracy from within), l’uso che i politici fanno dei social media si può dividere in uso e abuso: mentre il primo costituisce una semplice estensione online di una campagna elettorale e politica, l’abuso rappresenta un pericolo per i sistemi democratici e consiste nella consapevole distribuzione di disinformazione e nell’uso di un linguaggio aggressivo e spesso offensivo, un approccio che le fazioni più moderate sono meno propense a utilizzare. Alcuni leader dell’estrema destra di tutto il mondo, come il presidente filippino Rodrigo Duterte e quello brasiliano Jair Bolsonaro, solo per citarne un paio, hanno fatto loro la strategia di sfruttare le potenzialità delle piattaforme social per diffondere deliberatamente fake news, difficili da controllare o smentire una volta messe in circolazione, messaggi violenti e insulti contro gli avversari politici. Durante la sua campagna elettorale nel 2018, Bolsonaro si era servito soprattutto di Whatsapp come social per creare centinaia di gruppi in cui condivideva materiale razzista, sessista e discriminatorio, sfruttando e acutizzando le divisioni sociali e l’odio razziale nei confronti di alcune minoranze etniche a proprio vantaggio. 

Questo è solo uno degli esempi della tanto discussa possibile dannosità dell’utilizzo dei social, di cui Trump è stato il focus mediatico dell’ultimo quinquennio. Su questo tema si sono espressi, tra gli altri, il giornalista americano Farhad Manjioo in un articolo sul New York Times e alcuni esponenti politici come la cancelliera Angela Merkel e il politico dell’opposizione russa Alexei Navalny, tutti in diretta conseguenza della sospensione del profilo Twitter di Trump il 6 gennaio 2021 e con una visione abbastanza contrastante delle possibili soluzioni a questo problema.

Possiamo fare a meno dei politici?

Durante i quattro anni della presidenza di Donald Trump, plurime sono state le violazioni alla “netiquette”, termine che fonde il termine inglese “network” (rete) e quello francese “étiquette” (buona educazione) e che indica le regole informali che gli utenti sono tenuti a seguire sul web. Quello che però accade a un qualsiasi utente privato che trasgredisce a queste “regole non scritte” è completamente diverso da quello che accade solitamente a un esponente politico, soprattutto quando il suo elettorato medio è complottista e anti-sistema. Le fake news, ad esempio, invece di generare disapprovazione da parte degli altri utenti della Rete, creano una cerchia di persone convinte (ed esortate a convincersi) di essere gli unici detentori della reale verità delle cose. La conseguenza non è quindi l’isolamento dell’utente-truffatore, ma la sua idolatria.

È per questa, e altre ragioni, che il redattore del NYT Manjoo ha sostenuto l’idea secondo cui «I capi di stato non dovrebbero essere autorizzati a twittare» e che «La persona più potente nel contesto più influente del mondo non dovrebbe pubblicare brandelli di pensiero istintivo da 280 caratteri scritti sul momento, senza una revisione, su una piattaforma privata». L’idea del giornalista americano è che il social, in quanto le sue caratteristiche costitutive non lo consentono, non può essere uno strumento di comunicazione valido per un capo di stato. Partendo dalla sua riflessione, possiamo trovare motivazioni valide che rendono problematico l’uso dei social per questi soggetti: mancanza di una revisione dello scritto, ambiguità sulla possibilità di considerare un tweet una comunicazione ufficiale oppure no, mancanza di un pubblico competente in grado di confrontarsi sulla veridicità o meno di ciò che è appena stato detto. O il semplice fatto che gli interessati dispongono di efficienti apparati di comunicazione e uffici stampa e non hanno la necessità di usare Twitter o Facebook come mezzo di comunicazione. Nonostante queste criticità, negare la possibilità a un esponente politico di comunicare attraverso i social significa tagliare una grossa fetta di mezzi di comunicazione per scopi politici. In Italia, ad esempio, ISTAT ha pubblicato i dati secondo cui nel 2019 quasi il 20% delle persone che si informano di politica tramite Internet lo fa attraverso i social, con un calo di -10% per la stampa online dal 2014. Oltre il 65% degli adulti con più di 44 anni usa i canali tradizionali dell’informazione politica anche sul web mentre più del 70% dei giovani di 14-24 anni sceglie social network e blog per la propria informazione. Lavorare affinché capi di stato o politici non possano sfruttare i social come mezzi di comunicazione, significherebbe tagliare fuori dalla fruizione dell’informazione una grande fetta di popolazione.

Distante quindi dalla tesi sostenuta dal redattore del NYT, si è espressa la cancelliera Angela Merkel, il cui portavoce ha dichiarato che la politica considera il ban del profilo di Trump «problematico», aggiungendo che «Il diritto alla libertà di opinione è di fondamentale importanza». Zimmermann, membro della commissione per l’agenda digitale del parlamento tedesco, ha affermato che è un problema quando l’amministratore delegato di un’azienda, impedisce a un leader statale di raggiungere milioni di persone. È quindi proprio la libertà di espressione politica che viene menzionata anche dal dissidente politico russo Alexei Navalny, il quale pensa che l’azione di Twitter sia stato un «atto di censura inaccettabile» e che «abbiamo visto molti esempi, in Russia e in Cina, di società private che diventano le migliori amiche dello Stato e le facilitatrici quando si parla di censura». L’intervento di Twitter sembra quindi essere violento, e rischioso per la libertà di espressione. Gli account dei capi di stato svolgono un ruolo sociale completamente differente da un account di un singolo individuo senza valenza politica, e questo cambia anche le regole con cui l’azienda dovrebbe intervenire sulle sue parole. 

Il giornalista e vicedirettore del Post, Francesco Costa, sostiene che se una società privata ha il diritto, o per alcuni il dovere, di censurare pensieri che un capo di stato esprime attraverso una piattaforma social, ha conseguentemente il diritto, o il dovere, di decidere su quello che arriverà all’orecchio dell’elettore. Per il giornalista, come per alcuni politici di stati democratici come la Germania, è molto rischioso tarpare le parole di un capo di stato facendo in modo che queste non rientrino nel dibattito pubblico diventando in questo modo oggetto di consenso o disprezzo del politico stesso. Qualsiasi cosa un capo di stato dica o scriva, a prescindere che questo contrasti con i termini e le condizioni di un’azienda privata, è di interesse pubblico ed è doveroso che un elettore possa accedervi liberamente. 

I capi di stato dovranno quindi fare i conti, e già li stanno facendo, con la limitazione della loro libertà di espressione anche su piattaforme come Twitter e Facebook, che fino a questo momento sembravano essere grandi piazze con forti megafoni e poche regole.

Silenzio stampa

Nell’epocale conflitto tra i social network e la stampa tradizionale, la libertà d’informazione è attaccata da tutti i lati

Con diritto di informazione si fa riferimento a uno dei diritti garantiti e tutelati da ormai tutti i moderni ordinamenti giuridici. In Italia esso è strettamente legato alla libertà di manifestazione del pensiero, definita dall’articolo 21 della Costituzione italiana. Nei secoli passati la condivisione di informazioni avveniva soprattutto tramite la carta stampata, il cui uso rimase costante anche con l’avvento del telegrafo prima, della radio e della televisione poi. A cambiare le carte in tavola, in maniera irreversibile, è stato internet. 

Secondo un report del 2019, la diffusione di giornali quotidiani cartacei in Italia si è attestato a poco più di 2 milioni di copie giornaliere. Nel 2007, questo stesso dato ammontava a 5,5 milioni. Anche il fatturato pubblicitario è calato: nell’era pre digitale il reddito delle notizie consisteva in abbonamenti, iscrizioni e, appunto, pubblicità. Con internet l’advertising ha prediletto l’online, poiché più conveniente sotto il punto di vista della visibilità. Sempre nel 2018, la spesa pubblica su internet è aumentata del 20%, e nel 2020 il fatturato pubblicitario del mezzo stampa è diminuito del 26.9%. 

Inoltre, sono le tempistiche ad essere diverse: i giornali non possono più permettersi di aspettare fino al giorno dopo per le “breaking news”, poichè i siti possono essere aggiornati costantemente. Questa fretta nel condividere le informazioni porta un grosso svantaggio: il tempo dedicato al fact checking è molto ridotto, e ciò ha come conseguenza il proliferare di fake news, che fanno la loro comparsa anche su giornali la cui competenza viene generalmente data per scontata. 

Inoltre, l’informazione viaggia sempre più sui social network: sempre secondo il report del 2019, “il 24,9% dei giovani di età dai 14 ai 34 anni si informa soltanto tramite i social network”. L’utilizzo esclusivo di questi come unico canale di informazione è raddoppiato nella fascia 34-54 (da 8,9% a 18,9%) e triplicato dai 54 in su (da 5,6% a 15,1%). Dal 2014 al 2019 è aumentato il ricorso esclusivo a Facebook & affiliati (19,8%), mentre quello della stampa on line è in netto calo: dal 41,1% al 33,1%. L’ubiquità delle notizie, poi, ha portato i lettori a essere meno inclini a pagare per un abbonamento, potendo facilmente reperire le informazioni che cercano gratuitamente su internet, se non su una testata, sicuramente sui social o su un’applicazione dedicata alle news. 

I rapporti tra nuovi e vecchi mezzi di comunicazione sono, quindi, inevitabilmente destinati ad assestamenti turbolenti. Ne è un caso ciò che sta succedendo in Australia, dove il governo ha presentato un disegno di legge riguardante i rapporti tra stampa e piattaforme digitali che ha portato Google e Facebook ad avviare delle trattative con i media australiani, i quali da mesi chiedono con forza di ottenere una remunerazione per l’utilizzo dei propri contenuti da parte dei big del digitale. Ciò che ha portato ad instaurare una negoziazione tra queste due parti sono state le entrate pubblicitarie che le piattaforme digitali ottengono grazie alla diffusione di contenuti giornalistici che dovrebbero essere condivise con chi quei contenuti li ha prodotti. Ad oggi invece non è così, secondo quanto sostenuto dal governo australiano e dagli editori stessi, perché il mondo della pubblicità preferisce puntare sulle grandi piattaforme social piuttosto che sui giornali in calo di visibilità.

Ad aumentare esponenzialmente la rilevanza delle lamentele delle case editrici e ad incoraggiare la presa di posizione del governo, sono stati proprio i dati riguardanti le entrate pubblicitarie: secondo uno studio del Sole 24 Ore, il 40% dei clic di Google arriva dalle notizie, e solamente nel 2018 Big G ha guadagnato almeno 4,7 miliardi di dollari grazie alle notizie pubblicate su Google News. Questi dati segnano, in maniera inversamente proporzionale, un’impennata per i colossi della tecnologia e un collasso per i fautori della carta stampata. Paradossale, se si pensa che senza di essi, Google e Facebook sarebbero molto più poveri di contenuti e meno attrattivi per gli utenti. Tesi diversa quella sostenuta dal principale motore di ricerca che sostiene invece che i media e il governo abbiano travisato come funziona il mercato della pubblicità online: le piattaforme non guadagnano grazie ai contenuti, ma grazie agli annunci pubblicitari, e quelli inseriti nelle news non sono particolarmente lucrosi. Inoltre, togliere il giocattolo dalle mani dei social network non significherebbe necessariamente tutelare la pluralità dell’informazione: per restare sul caso australiano, ben il 75% delle testate giornalistiche del Paese è in mano alla News Corp. di Rupert Murdoch, che detiene inoltre circa il 23% delle quote del mercato editoriale locale. Una dinamica a cui si assiste anche in Italia e in altri paesi occidentali, in cui la piccola e media editoria, quella più interessata dai rapidi mutamenti del settore e più in difficoltà a reagire, finisce per essere assorbita in enormi gruppi editoriali, con conseguenze prevedibili sulla qualità dell’informazione.

A prescindere però dalle opinioni personali, le due grandi aziende digitali non sono arrivate a una soluzione pacifica fin da subito. In un primo momento, infatti, i colossi tecnologici erano arrivati a minacciare di abbandonare l’Australia, e soprattutto Facebook dal 18 gennaio ha oscurato tutte le pagine delle principali testate australiane e disattivato i link che rimandavano agli articoli. Ciò aveva portato a un crollo del 13% delle visite dall’Australia dei siti di queste testate, e del 30% per quanto riguarda le visite al di fuori del Paese. Ad oggi, invece, pare i colloqui con il Ceo di Facebook Mark Zuckerberg e con quello di Google Sundar Pichai stiano prendendo la giusta piega, prevedendo che i contraenti negozino con ciascun media un compenso per la condivisione dei loro contenuti, e se le due parti non dovessero arrivare a un accordo, l’alternativa sarebbe una soluzione arbitrale. William Easton, il leader di Facebook in Australia, ha inoltre annunciato lo sblocco dei contenuti editoriali sul suo social network, in seguito a un accordo raggiunto tra le parti, del quale però non si conoscono ancora gli estremi. 

Spostando l’attenzione invece nel nostro continente, l’Unione Europea prevede già una forma di tutela del diritto d’autore nel quadro delle tecnologie digitali, tramite la direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale (direttiva 2019/790), che però a onor del vero non è mai stata realmente applicata. La direttiva risponde perfettamente alle richieste e proteste presentate dal governo australiano, cioè mira ad aumentare le possibilità dei titolari dei diritti, editori, giornalisti, musicisti e altre personalità legittimate, di negoziare accordi aventi come tema centrale la remunerazione derivata dall’utilizzo delle loro opere presenti sulle piattaforme Internet. Inoltre, i Signori del digitale saranno considerati come i diretti responsabili dei contenuti caricati sui loro siti, riconoscendo agli editori di notizie il diritto di trovare una mediazione per conto dei giornalisti sulle informazioni utilizzate dagli aggregatori di notizie. 

Come di facile intuizione, tuttavia, tale direttiva non è stata ben accolta da chi fino a quel momento aveva accentrato su di sé la totalità dei compensi. Poco tempo dopo l’emissione della direttiva infatti, la stampa francese ha puntato il dito contro Google, accusando l’azienda di aver infranto la direttiva decidendo unilateralmente di tagliare le indicizzazioni, e di conseguenza il traffico in rete, dei giornali che si sono rifiutati di fargli continuare a usare gratuitamente i loro contenuti nei suoi risultati di ricerca. Dopo il ricorso all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Google è stato costretto a negoziare secondo i principi di lealtà e buona fede con l’Alleanza della stampa francese (Apig), “una tappa importante che segna il riconoscimento effettivo del diritto connesso degli editori di giornali e l’inizio della loro remunerazione da parte delle piattaforme digitali per l’uso delle loro pubblicazioni on line”, ha commentato Pierre Louette, CEO del gruppo Les Echos – Le Parisien e presidente dell’Apig.

Le discussioni sul tema, come detto, riguardano anche la possibilità o meno di considerare i social network come editori responsabili dei contenuti che ospitano, o invece più semplicemente delle piattaforme libere che si limitano a “distribuire” i contenuti. Negli Stati Uniti, ad esempio, le piattaforme sono tutelate dalla Section 230 del Communications Decency Act, che garantisce l’immunità a chiunque favorisca la circolazione di contenuti di cui non è l’autore. Questa norma è stata alla base del successo del web nei suoi primi anni (“Le 26 parole che hanno creato internet”, secondo un libro di Jeff Kosseff), ma è stata rimessa in discussione dall’interventismo sempre più spinto dei moderatori dei social. Trump ne aveva chiesto più volte l’abrogazione, ma il suo ultimo tentativo, poco prima di lasciare la presidenza, è stato scavalcato da una netta maggioranza al Congresso. 

Ottenerne la cancellazione sarà, con tutta probabilità, difficile per qualsiasi presidente, perché in ballo c’è anche un altro tipo di ruolo politico giocato dai social: Facebook, Twitter, la stessa Google sono aziende sì private, ma tutte con sede negli Stati Uniti e interessi spesso coincidenti con quelli americani. Il 23 febbraio, Twitter ha annunciato di aver rimosso 373 account che avevano legami con Russia, Armenia e Iran. Circa 100 account legati alla Russia sono stati rimossi per aver «amplificato narrazioni che minavano la fiducia nella Nato e prendevano di mira gli Usa e l’Unione europea». Inimicarsi a cuor leggero un tale potenziale alleato potrebbe non rivelarsi così conveniente. E sull’altare sacrificale potrebbe andare un pezzettino della nostra libertà di stampa.

Società sorvegliata

I governi possono intervenire per arginare la censura social. Ma nemmeno il pubblico è garanzia di successo, anzi.

Social di Stato

La privatizzazione della censura, ossia lo slittamento dell’esercizio del potere tipicamente statale della censura verso soggetti privati, pone diversi interrogativi sulla presunta neutralità delle piattaforme web e la tutela della libertà di espressione. In Occidente, i metodi adottati dagli Stati per contrastare la pubblicazione di contenuti illeciti e le manifestazioni di odio online seguono sostanzialmente due diversi approcci: il modello europeo, secondo cui la rete andrebbe regolamentata più rigidamente, e quello americano che, nel quadro del Primo Emendamento degli Stati Uniti sul rispetto della libertà di parola, risulta più flessibile nel lasciare un certo margine di discrezionalità alle società private.

Tuttavia, sembra interessante notare come la censura operata dalle piattaforme nei confronti di Trump abbia assunto la forma di uno scandalo solamente ora, poiché ad essere “cacciato” dalla community è stato l’ex Presidente degli Stati Uniti. Eppure, già nel 2018 Facebook aveva sospeso l’account del capo dell’esercito e di diversi ufficiali del Myanmar per contrastare la diffusione di contenuti di odio e disinformazione all’interno del paese. È chiaro, quindi, che lo stesso approccio adottato nei confronti di un leader del mondo occidentale ha sortito un effetto del tutto differente. 

A tal proposito, per la prima volta lo scorso dicembre è stato depositato in Parlamento Europeo il Digital Services Act, un insieme comune di norme sugli obblighi e le responsabilità degli intermediari digitali all’interno del mercato unico, con lo scopo di tutelare i consumatori e i loro diritti online, istituire un quadro efficace e chiaro in materia di trasparenza e promuovere la competitività all’interno del mercato unico, facilitando l’espansione delle piattaforme più piccole. Dal canto suo, il Parlamento ha elogiato il disegno di legge che garantirebbe non solo un insieme di linee guida di cui è richiesto il rispetto ma una vera e propria regolamentazione legislativa del comportamento delle piattaforme e un sistema di sanzionamento ben preciso.

Considerando le tempistiche dell’iter legislativo comunitario questo pacchetto normativo non entrerà in vigore prima del 2024, ma già nel 2016 per far fronte al proliferare dell’incitamento all’odio razzista e xenofobo online, la Commissione europea e quattro colossi dell’informatica –  Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube – avevano sottoscritto il “Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online”, che si fonda su una stretta collaborazione tra la Commissione, le piattaforme informatiche e le autorità nazionali.
Grazie a questa intesa, nel 2020 il 90% dei contenuti segnalati è stato analizzato dalle piattaforme entro 24 ore e il 71% dei contenuti ritenuti un illecito incitamento all’odio è stato rimosso, contro rispettivamente il 40% e il 28% del 2016.

Tuttavia, il confine fra regolamentazione e  mero controllo del web da parte degli Stati è spesso labile e, mentre nelle nazioni democratiche del continente europeo si cerca di assicurare una maggiore trasparenza sulla gestione delle piattaforme digitali, i governi autoritari colgono l’opportunità di potenziare la sorveglianza sull’informazione all’interno del proprio paese. Infatti, lo scorso luglio in Turchia è stata approvata la legge soprannominata “anti-social media”, attraverso cui l’esecutivo dispone di un maggior controllo sui social network che hanno oltre 1 milione di visitatori al giorno, per mezzo della nomina di rappresentanti legali di nazionalità turca incaricati di vagliare i contenuti e, qualora fossero contrari alle norme, censurarli. Le piattaforme che non rispettano la nuova norma rischiano multe onerose, il blocco della pubblicità o la riduzione della banda fino al 90%, che essenzialmente ne limita l’accesso.

Spostando lo sguardo un po’ più a est la situazione non migliora. Da fine gennaio in India proseguono le proteste degli agricoltori contro la liberalizzazione del mercato agricolo prevista dalla riforma agraria e la repressione governativa è sempre più violenta. Così, il primo ministro Modi si è rivolto a Twitter affinché sospendesse 1.178 account considerati una potenziale minaccia per l’integrità del paese, appellandosi alla legge sull’Information Technology, con cui è previsto l’intervento statale nel caso si presenti un grave rischio per la sicurezza nazionale.

Il social aveva inizialmente oscurato più di 500 profili coinvolti in esempi di violazione delle regole come l’incitamento alla violenza, salvo poi sbloccarne alcuni in quanto non ritenuti una minaccia e mettendo così in dubbio le decisioni del governo. Alcuni profili continuano a essere geo-bloccati, ovvero oscurati all’interno dei confini nazionali, ma l’azienda ha deciso di non intraprendere alcun provvedimento nei confronti di politici, giornalisti, enti di informazione e attivisti per non minare la libertà di parola. Dal canto suo, il governo indiano ha minacciato di reclusione i dipendenti locali di Twitter e ha creato un nuovo social chiamato Koo, incentivando la popolazione a migrare sull’app di natura istituzionale per svuotare il grande bacino di utenza di cui Twitter usufruisce.

La Valle ti osserva

Dietro alla censura, al controllo o alla polarizzazione dei contenuti sui social non bisogna dimenticarsi dell’esistenza del mondo dei data analytics, baluardo della Silicon Valley ma non solo, da cui è scaturita quella che oggi gli esperti definiscono «guerra cibernetica».

Come evidenziato dal ricercatore Keman Huang e dal Professore di Tecnologie dell’Informazione Stuart Madnick presso la MIT Sloan School of Management, sono più di 75 i casi in cui un prodotto o un servizio sono stati vietati per presunti problemi di sicurezza informatica da oltre 31 Paesi. Basti pensare al recentissimo caso di Tik Tok. Risale all’agosto dello scorso anno l’ordine esecutivo firmato da Trump per vietare qualsiasi rapporto commerciale con Bytedance, la compagnia cinese che ha acquisito Tik Tok, e l’utilizzo della stessa applicazione, in cui viene menzionata come prima ragione di tale azione la fuga di dati dei funzionari governativi e dei cittadini statunitensi verso la Cina. 

Pericoloso precedente nella “patria della democrazia” quello instaurato da Trump, che è subito stato stroncato da ben due sentenze del Tribunale di Washington con l’accusa verso l’ex Presidente di limitare la libertà di parola. Tik Tok è riuscito comunque a salvarsi coinvolgendo nell’azionariato due investitori americani, l’azienda di cloud Oracle e la linea di supermercati Walmart, e modificando alcune linee per la trasparenza della sua policy. Anche se la partita non è ancora finita, vista l’ascesa del nuovo Presidente Biden, che non ha espresso completo dissenso per l’operato di Trump nei confronti di Tik Tok ma ha preferito prendersi del tempo per discutere degli eventuali provvedimenti da prendere. Ancora più recente è il caso di Clubhouse. La piattaforma neonata, partorita dalla Silicon Valley nel 2020, permette di creare stanze virtuali ─ a cui si può accedere solo se invitati ─ per parlare e discutere degli argomenti più disparati. Subito dopo essere stata censurata da Pechino per alcuni dibattiti nati su temi non particolarmente apprezzati nella capitale, non è tardata ad arrivare la notizia, proveniente da fonti anonime,  secondo cui il software cinese Agora per le chiamate online invierebbe i dati sensibili degli utenti al Governo cinese. Né Agora né Clubhouse si sono espresse a tal proposito.

Nel frattempo si è diffuso il panico tra quanti sul social temono l’utilizzo dei propri dati per scopi governativi. Sembra evidente che dietro alle nuove regolamentazioni per i contenuti, alla remunerazione dei media da parte delle piattaforme digitali per le loro pubblicazioni e alle presunte minacce contro la sicurezza nazionale ci sia dell’altro. La chiave è nel mondo dei data analytics poiché l’analisi dei dati serve ad evidenziare informazioni utili alle decisioni strategiche aziendali, creando modelli di consumatori. Da qui deriva la paura degli Stati Uniti, come di qualsiasi altro Paese inserito all’interno del commercio internazionale, che l’accesso indiscriminato ai profili social dei cittadini garantisca una posizione di vantaggio al Paese rivale nell’allocazione di beni e servizi all’interno del mercato, oltre che nell’ottenere informazioni di rilevante valenza politica.

Tornando al caso Tik Tok, è curioso notare come la raccolta di dati da parte della Bytedance sia irrilevante in confronto alla quantità archiviata dalle maggiori aziende tecnologiche americane, come Google o Facebook, nate nella «Valle Oscura», come viene definita la Silicon Valley dalla scrittrice Anna Wiener. Fatto che ci riporta a considerare le motivazioni economiche e politiche sopra descritte, piuttosto che la reale intenzione degli Stati Uniti di preservare la privacy dei cittadini per la loro sicurezza. Infatti già nel 2019 gli Usa, il Regno Unito e l’Australia avevano fatto pressioni su Facebook e Whatsapp per accedere ai messaggi crittografati, ricevendo come risposta un rifiuto. Se quanto richiesto dovesse essere concesso, la conseguenza sarebbe quella per cui ogni dispositivo connesso a Internet  verrebbe considerato un potenziale strumento di spionaggio governativo e sarebbe bandito da tutti gli altri Paesi.

Invece, a proposito delle creazioni digitali della Valle precedentemente nominata, ben 17 anni fa Peter Thiel ─ investitore miliardario vicino a Trump durante il primo mandato e consigliere amministrativo di Facebook ─ ha fondato la società di progettazione Palantir, ancora poco conosciuta ma già definita come «un mostruoso ficcanaso del governo» dal giornalista Robert Scheer. L’azienda è nata poco dopo l’11 settembre inseguendo la causa della lotta al terrorismo, che le ha permesso di macinare dati privati senza interruzione per conto delle agenzie governative federali, quali l’FBI, la CIA, l’ICE, la Space Force e la Marina. Come affermato da Jeramie D. Scott, consulente senior dell’Electronic Privacy Information Center, che ha fatto causa con successo all’Immigration and Customs Enforcement per ottenere documenti sul suo lavoro con la controversa società, «Palantir analizza i database contenenti numeri di telefono, indirizzi e-mail, dati finanziari, registrazioni delle transazioni di chiamata e informazioni sui social media. […] I documenti ottenuti dall’ EPIC hanno dimostrato che i database dell’ICE basati su Palantir possono analizzare i record delle chiamate e i dati GPS, nonché condurre analisi sui social network delle informazioni che collegano individui diversi».

Infatti la società è responsabile di aver distrutto famiglie di immigrati non autorizzati, rintracciati per mezzo dei dati rilasciati sui social, così come di aver alimentato la brutalità della polizia verso le minoranze con controlli sui tabulati telefonici e sugli spostamenti per scovare ipotetiche organizzazioni criminali. Oltre a ciò il fondatore Peter Thiel ha lavorato con Cambridge Analytica sui dati degli utenti di Facebook e ha un contratto con il governo americano per la gestione dei censimenti degli Stati Uniti del 2020. Inoltre nell’ultimo anno a causa della difficoltà di tenere il conto dei casi di Covid-19, risulta che la società, o più precisamente la piattaforma HHS Protect di sua invenzione, detenga tutti i dati sanitari dei pazienti ospedalieri statunitensi e che stia per diventare pubblica. Anche se tale trasformazione non migliorerebbe granché la trasparenza dell’azienda dato il lavoro che  già svolge per conto dello Stato. È curioso quindi come gli Stati Uniti abbiano accusato la Cina di agire nell’ombra a scapito della privacy degli utenti social, essendo i primi ad approfittare del materiale prezioso contenuto nei sistemi della Silicon Valley. Appare così evidente che le controversie in atto tra i due blocchi potrebbero sottendere delle motivazioni prettamente sovraniste.

Come affermato dal professore emerito presso l’Harvard Business School, Shoshana Zuboff, oggi giorno viviamo nella «società della sorveglianza» ─ sui contenuti, sulle informazioni, sui dati ─ che ci ricorda quanto la lotta tra la regolamentazione statale o privata dei social riguardi più interessi politici e economici che la nostra sfera privata di cittadini, che anelano ancora uno spiraglio di libertà.

Con i contributi di

Cecilia Pellizzari
Cecilia Pellizzari

Redattrice

Federica Tosi
Federica Tosi

Redattrice

Brigitta Mariuzzo
Brigitta Mariuzzo

Redattrice

Federica Scannavacca
Federica Scannavacca

Redattrice

Federica Carlino
Federica Carlino

Redattrice

Federica Fiorilla
Federica Fiorilla

Redattrice