Biomasse

Cosa l'energia a biomassa ci può insegnare sullo stato dell'arte delle rinnovabili

Le fonti energetiche rinnovabili sono uno strumento fondamentale nella lotta al cambiamento climatico e nel proseguimento del genere umano. Tuttavia, esse non sono prive di problematicità. Tra queste, l’energia da biomassa, un termine ampio ma che indica principalmente la vecchia e cara combustione di legna, è in costante crescita. La sua produzione a livelli industriali genera conflitti di scala locale, come dimostra il caso della centrale a biomasse Mercure al confine tra Calabria e Basilicata, minaccia la tutela del patrimonio forestale e pone degli interrogativi circa la reale efficacia del suo utilizzo contro il riscaldamento globale. Imparare a riconoscere i casi in qui rinnovabile non coincide con sostenibile non vuol dire un rifiuto tout court del progresso o della tecnologia, quanto piuttosto l’inverso: imparare ad usare gli strumenti nel migliore dei modi.

Tempo di un dibattito

Nella lotta al cambiamento climatico e nel discorso intorno alla decarbonizzazione necessaria per la mitigazione dei suoi effetti più devastanti, le energie rinnovabili hanno un ruolo fondamentale. Tale importanza viene riconosciuta sia dal mondo imprenditoriale progressista, afferente al cosiddetto green capitalism, sia dalla maggioranza dei movimenti ambientalisti. Entrambe queste forze, la prima finanziaria e la seconda politica, individuano, infatti, nelle fonti di energia rinnovabili la chiave di volta per il rilancio del futuro dell’umanità. 

Tuttavia, come ha avuto il merito di denunciare Jeff Gibs in “Planet of the Humans” (controverso documentario, prodotto da Michael Moore, che ruota intorno a questo tema), spesso il dibattito fatica ad analizzare le molte criticità strutturali che caratterizzano le fonti rinnovabili e i numerosi danni ambientali che un approccio puramente industriale al problema comporta. Spesso, infatti, si tende ad accettare passivamente il concetto di “rinnovabilità”, accostandolo e sovrapponendolo sempre e comunque a quello di “sostenibilità”, ad uso e consumo delle grandi aziende che speculano sulla sempre maggiore attenzione alla questione ambientale. È per questo che operazioni di problematizzazione come quella svolta da Gibbs e Moore, al netto del disfattismo e del nichilismo che le accompagna, vanno viste come un servizio alla causa ecologista e non come un attacco.

Per andare nella direzione di comprendere meglio la sottile, ma sostanziale differenza tra “rinnovabile” e “sostenibile”, abbiamo preso a esempio un caso di produzione di energia da biomassa: una fonte energetica a proposito della quale la conoscenza dell’opinione pubblica è limitatissima, ma che vede aumentare ogni anno il peso della sua quota nella produzione rinnovabile nazionale e crescenti investimenti. La produzione di energia attraverso questa fonte riceve ecoincentivi dallo Stato, ma sulla sua sostenibilità ambientale ci sono opinioni fortemente contrastanti.

Emanare condanne tout-court non è certo l’obiettivo di questo Focus. Aprire un dibattito doveroso e coraggioso, invece, lo è. È dunque osservare quanto una determinata fonte energetica sia problematica in un determinato contesto, e quando.

Il caso studiato nelle pagine che leggerete, emblematico e tutto nostrano, è quello della Centrale a biomasse della Valle del Mercure, situata tra Calabria e Basilicata all’interno del Parco Nazionale del Pollino. Un esempio di come – in alcune aree d’Italia e precisi contesti – le fonti rinnovabili non siano pulite e, al contrario, possano essere al centro di reti di business che integrano multinazionali energetiche, clientelismo a vari livelli e persino criminalità organizzata.

Nello studiare le pessime abitudini e inclinazioni del nostro sistema energetico, che nel migliore dei casi pensa solo di compiere uno switch da fossile a “rinnovabile” come avvenuto nella Centrale del Mercure, abbiamo tentato di capire come sia possibile correggerne le storture. Per rivendicarne un altro che sia non solo più sostenibile, ma anche più democratico.

Mercure. Non tutto è oro quel che è "rinnovabile"

La centrale tra le valli

Se si percorre l’autostrada Salerno – Reggio Calabria, il Parco nazionale del Pollino è la grande area verde e montuosa che si attraversa viaggiando tra le uscite di Lauria, in Basilicata, e Castrovillari, in Calabria. Il Parco è una delle aree protette più giovani dell’ordinamento italiano, istituito con Decreto del Presidente della Repubblica nel 1997. L’area tutelata è in realtà molto di più di un palcoscenico autostradale e rappresenta, come sa bene chiunque l’abbia attraversata, un territorio ad alto valore paesaggistico e culturale caratterizzato, per ampi tratti, da una incontaminata biodiversità, che inorgoglisce i suoi abitanti e sorprende i visitatori.

Un’altra cosa che si può notare, percorrendo la principale arteria stradale del sud della Penisola, sono le pale eoliche, talvolta sporadiche, spesso raggruppate in “parchi”, che negli ultimi vent’anni hanno popolato i pendii dei rilievi del Mezzogiorno, sfruttando microclimi dimenticati dalla contemporaneità, ma non dalle imprese energetiche.

Osservando con attenzione le pale ci si accorge che in realtà molte non girano. La spiegazione è semplice, e sta nel fatto che non hanno bisogno di farlo. Il meccanismo di ecoincentivo statale che è alla fonte della loro installazione è, infatti, già stato avviato e continua a generare profitti per i contraenti, sia che le pale girino che non, in assenza di controlli e in presenza di logiche che poco hanno a che far con la razionalità economica. Lo stesso meccanismo, nello stesso territorio, è alla base della profittabilità di un progetto energetico più nascosto all’occhio, ma non meno controverso: la Centrale del Mercure.

L’impianto a biomasse del Mercure sorge molto vicino ai comuni di Viggianello e Rotonda, in provincia di Potenza, ma, amministrativamente, si trova nel comune di Laino Borgo, in provincia di Cosenza. Il confine fra le due regioni passa a pochi metri dalla Centrale, poco più a monte della strada provinciale che la costeggia e che serve ai quasi 100 camion al giorno che la riforniscono e scaricano la biomassa necessaria al suo funzionamento continuativo.

Anche se non è paragonabile al gigantismo degli impianti a combustibili fossili, come petrolio o carbone, la Centrale del Mercure è un gigante nel suo genere. Il dato sulla quantità di biomassa è pari a 350.000 tonnellate ogni anno, che vengono accumulate nel piazzale retrostante l’impianto per essere poi bruciate all’interno. La biomassa utilizzata dalla Centrale è esclusivamente “cippato”, più o meno equivalente a del truciolato, di legno vergine proveniente da operazioni di deforestazione. Il legno vergine proviene da varie aziende fornitrici, che per la maggior parte raccolgono legname in Calabria e Campania. I camion, che provengono dall’autostrada, percorrono la stretta ex statale SS19 fino alla Centrale. Generando, peraltro, congestione e inquinamento. 

Tuttavia, per quanto rappresenti una delle attività più inquinanti connesse all’impianto, insieme alla combustione della legna e alla dispersione aerea di polveri dagli stock di legname, l’autotrasporto della biomassa è stata anche una delle più decisive nelle operazioni di lobbyng che hanno portato al prevalere delle ragioni del “Sì” alla centrale su quelle del “No” dopo quasi quattordici anni di lotte giuridiche.

La Centrale del Mercure, infatti, era precedentemente un impianto a olio combustibile e nel 1997 viene spenta e dismessa. Nel 2002, però, Enel presenta per la struttura un progetto di riconversione a biomasse.

Intervento da Roma

L’iter burocratico che porterà, nel 2016, alla definitiva riapertura dell’impianto è piuttosto lungo e complicato ed è segnato da una vera e proprio guerra legale tra due schieramenti contrapposti. Da un lato gli interessi economici di chi vede nella Centrale una possibilità di profitto, principalmente composti dagli operatori del settore trasporto e fornitura biomasse, dai proprietari dell’impianto – la società Enel – e da alcuni enti locali, principalmente calabresi. Dall’altro ìil Forum ambientalista “Stefano Gioia”, in prima linea nell’opposizione alla riapertura della Centrale, i cittadini e gli amministratori dei comuni circonvicini di Viggianello e Rotonda, in Basilicata, e gli organi direttivi del Parco Nazionale del Pollino.

Dopo la presentazione del primo progetto di riconversione della Centrale dopo una serie di valutazioni ambientali mai rese pubbliche, la Provincia di Cosenza rilascia immediatamente, nel settembre 2002, l’autorizzazione a riaprire la Centrale. 

Nel luglio 2009, sempre la Provincia di Cosenza convoca una Conferenza di Servizi, momento concertativo tra le parti coinvolte previsto dalla legge, salvo poi, nel dicembre dello stesso anno, dichiararsi “non competente” sul procedimento e trasmettere la responsabilità alla Regione Calabria. A distanza di circa un anno, nel settembre 2010, la Regione, convalidando semplicemente l’iter messo in atto dalla Provincia, autorizza una seconda volta l’apertura della Centrale. Dopo una prima serie di ricorsi, il Consiglio di Stato annulla l’autorizzazione della Regione nell’agosto del 2012, chiedendo una nuova Conferenza di Servizi e l’esplicito coinvolgimento della Regione Basilicata, fin lì esclusa dai procedimenti.

Nell’agosto 2012 la Regione Calabria convoca quindi una Conferenza di Servizi, che si svolgerà nei mesi successivi, da settembre a ottobre, e sarà seguita dalla terza autorizzazione alla riapertura dalla Centrale, firmata dalla Regione. L’anno successivo tale autorizzazione viene annullata dal TAR della Calabria, riconoscendo la necessità di ricorrere al più alto organo competente, il Consiglio dei Ministri, a seguito del parere sfavorevole alla riapertura della Centrale dato in sede di Conferenza da parte dell’organo più vicino in tema di tutela ambientale, l’Ente Parco nazionale del Pollino.

Nel giugno 2013 la vicenda prende una piega diversa, nazionale, ed è il Ministero dello Sviluppo Economico a promuovere l’apertura di un tavolo tecnico di trattativa tra le parti, con l’obiettivo di sbloccare l’impasse creatasi sulla vicenda della Centrale del Mercure. Al tavolo partecipano la totalità degli enti locali coinvolti e alcune organizzazioni sindacali. Tranne l’organo direttivo del Parco del Pollino, che continua a dichiararsi sfavorevole alla riapertura della Centrale – applicando i divieti contenuti nel Piano del Parco – le parti si schierano unanimemente a favore. Nel gennaio 2014 si arriva quindi alla sottoscrizione da parte dei partecipanti al tavolo di uno schema di accordo di compensazione, volto a risarcire economicamente gli enti dei territori danneggiati dall’esercizio della Centrale del Mercure. Tale accordo verrà approvato, su sollecitazione degli organi politici del Parco (la Presidenza), anche dalla Comunità del Parco del Pollino nel marzo 2014.

Preso atto della convergenza raggiunta tra le parti, la Regione Calabria convoca una nuova Conferenza dei Servizi nel settembre 2014. Il parere finale è a questo punto ovviamente positivo, ma il permanere del parere sfavorevole degli organi direttivi dell’Ente Parco rende comunque necessaria la procrastinata trasmissione al Consiglio dei Ministri.

Infine, nel giugno 2015, a distanza di ben tredici anni dalla presentazione del progetto di Enel, il Consiglio dei Ministri delibera a favore dell’apertura dell’impianto a biomasse del Mercure, giustificando tale decisione con motivi di carattere superiore, e spianando la strada alla quarta e ultima autorizzazione che arriva nel novembre 2015 da parte della Regione Calabria.

A prevalere sono le ragioni degli operatori economici, che battono il tasto della mancanza di lavoro e di una supposta vocazione alle biomasse dell’area, e quelle degli enti regionali e amministrazioni locali calabresi, ammansite dagli accordi di compensazione ma tra le quali, comunque, non c’era mai stato un significativo dissenso.

Gli unici a dichiararsi sempre contrari alla riapertura della Centrale sono, oltre alla già citata direzione dell’Ente Parco, i comuni di Viggianello e Rotonda e il Forum Ambientalista “Stefano Gioia”, che ricorrerà al TAR nel novembre 2016 contro la riapertura, e, in seguito al respingimento del ricorso da parte di questo, al Consiglio di Stato. Quest’ultimo appello, infine, sarà rigettato nel novembre del 2018.

A muovere l’opposizione alla Centrale da parte del Forum “Stefano Gioia” sta una serie di criticità ambientali. Alcune di esse sono “strutturali” e legate all’essenza delle centrali a biomassa, tra cui le emissioni di anidride carbonica, diossina e polveri sottili. Altre invece sono endemiche del Mercure, e riguardano la precedente destinazione del sito, mai bonificato dopo la prima chiusura, l’inadeguatezza della strada adiacente alla Centrale ad ospitare il pesante traffico di automezzi, la prossimità al fiume Mercure – Lao le cui acque sono uno dei pochi habitat per la specie della lontra e che la Centrale invece utilizza per il funzionamento dei suoi impianti. 

Un altro degli argomenti più spesso riportati dagli oppositori al sito è inoltre la giacenza della Centrale in una zona dal particolare microclima, che è caratterizzato dal fenomeno dell’inversione termica, una sorta di stagnazione dell’aria particolarmente severa che si concretizza nella formazione di forti nebbie anche in piena estate. A completare il quadro dell’impatto ambientale della Centrale stanno una serie di coltivazioni a Denominazione di Origine Protetta presenti nel territorio della Centrale, oltre al fatto che, come spesso ricordato, essa si trovi in un Parco Nazionale.

Interessi criminali

È il 19 settembre 1967. Durante una seduta del Senato, il senatore Francesco Spezzano rivolge un’interpellanza al Ministro dell’Industria, Giulio Andreotti. Vuole sapere se sia “a conoscenza delle vibrate proteste degli abitanti dei comuni di Laino Borgo, Rotonda, Castelluccio, Viggianello e Laino Castello […] per i fenomeni di inquinamento atmosferico e terrestre […] della centrale termoelettrica del Mercure”. 

Sono passati più di cinquant’anni, eppure la centrale calabrese continua a essere oggetto di dibattito. E tra più accesi motivi di contestazione ci sono sicuramente le infiltrazioni criminali nella filiera di fornitura della materia legnosa. 

Nel Piano di Approvvigionamento Biomasse aggiornato da Enel nel 2008, viene definita un’unica “bozza [di] accordo triennale” con il Consorzio Legno Calabria “per la consegna di cippato di legno […] di origine […] prevalentemente calabra”. Nel 2014, però, si scopre che il presidente del Consorzio, Antonio Domenico Derenzo, era stato colpito da due interdittive antimafia del Prefetto di Vibo Valentia, nel 2011 e nel 2012. Negli stessi anni, all’imprenditore era anche stata revocata dall’Autorità Portuale l’autorizzazione a operare nel Porto di Gioia Tauro. E ancora, che le Forze dell’Ordine certificavano la sua frequentazione di soggetti coinvolti in “associazioni di tipo mafioso, estorsione, […] truffa aggravata, emissione di fatture per operazioni inesistenti, ricettazione”. La vicenda, come commentava all’epoca dei fatti “Il Corriere della Calabria”, sollevava ben “più di qualche dubbio sulle modalità di attuazione del codice etico tanto sbandierato” da Enel. 

Questo non è l’unico incidente di percorso: Derenzo era infatti anche uno dei principali esponenti del Comitato per il Sì alla Centrale, con il quale, proprio nel 2014, aveva organizzato un blocco stradale in favore della riapertura dell’impianto. Nei video della protesta si nota una lunga fila di autotreni che bloccano la strada, tutti appartenenti alla stessa ditta: impresa boschiva F.lli Spadafora. Le motivazioni della protesta sono facilmente intuibili: per rifornire la centrale occorrono circa 350.000 tonnellate di cippato all’anno, con un via vai di oltre 100 tir al giorno. E proprio l’azienda della famiglia Spadafora, fra il 2016 e il 2017, fornisce biomasse alla Centrale del Mercure per oltre 42.000 tonnellate. Nel 2018, però, la DDA di Catanzaro arresta, per presunte connessioni con la ‘ndrangheta, 169 persone: fra queste anche Antonio, Luigi, Pasquale e Rosario Spadafora. La famiglia Spadafora – riporta il “Corriere della Calabria” – era ritenuta vicina alla ‘ndrina di Cirò e “in particolare Pasquale Spadafora aveva acquisito i gradi di picciotto, sgherrista e camorrista”. Gli esponenti della famiglia avevano il compito di corrompere le guardie forestali, per avvantaggiare le imprese vicine alla cosca. Persino una funzionaria di Calabria Verde, ente regionale che si occupa di forestazione, è accusata di aver incassato una “mazzetta” di 20.000 euro da Antonio Spadafora. Quest’ultimo, amministratore unico della F.lli Spadafora S.r.l., rientra anche nella lista di finanziatori della campagna elettorale 2014 del suo compaesano Mario Oliviero, presidente PD della Regione Calabria fino al 2020. 

Insomma, intorno alle forniture della centrale hanno gravitato – fin quando Enel non ne ha sospeso i contratti – figure, tutte con interessi nell’industria boschiva, pesantemente compromesse con la criminalità organizzata. Figure che – circostanza fin’ora inedita – hanno portato avanti il loro business anche grazie all’(inconsapevole) aiuto dell’Unione Europea. Tanto Derenzo quanto gli Spadafora, infatti, risultano beneficiari di «pagamenti diretti nell’ambito del Fondo europeo agricolo di garanzia». Il solo Pasquale Spadafora, fra il 2007 e il 2009, ha ottenuto contributi per oltre 30.000 euro. 

La gestione della Centrale del Mercure non è stata solo turbata dallo spettro dalle infiltrazioni criminali, ma anche da clamorosi conflitti d’interesse nella politica locale. Come quelli denunciati dal sindaco di Saracena, Mario Gagliardi, quando nel 2017 chiedeva la revoca della nomina del suo omologo di Laino Castello a componente del Consiglio Direttivo del Parco del Pollino, per «evidenti profili di incompatibilità»: la moglie era dipendente del Parco, il suocero (nonché ex sindaco) dirigeva i cantieri nel territorio del Parco, mentre la ditta dello zio forniva servizi edili per quegli stessi cantieri.

Biomasse dal mare

Un altro problema, strettamente collegato alle ingerenze criminali e mafiose, è quello legato alla provenienza della biomassa. L’intento di Enel era quello di attingere al «naturale bacino locale di approvvigionamento», nel raggio di circa 120 km dall’impianto: Calabria, Basilicata e Campania. Per queste regioni, Enel stimava una potenziale crescita della produzione di legname destinato all’energia fino a quasi 830.000 tonnellate (dati 2011). Quasi tre volte il fabbisogno della tanto contestata centrale. Peccato che in Calabria siano attivi altri 4 impianti a biomasse solide, per un consumo totale pari a 1.350.000 tonnellate annue. “Questa cosiddetta “filiera corta” delle biomasse – ragiona Ferdinando Laghi, presidente di ISDE che da decenni combatte contro la centrale – è, di fatto, assolutamente irrealizzabile”. La massiccia richiesta di cippato da combustione, prosegue Laghi, “aumenta il rischio di desertificazione e dissesto idrogeologico da tagli illegali”. Tagli illegali che, come denunciato da Libera e confermato nel 2017 dal commissario di Calabria Verde, Aloisio Mariggiò, “si verificano in una superficie” limitrofa al Mercure. È evidente che “le tanto incensate centrali a biomassa” rappresentano una ghiotta occasione di profitti; solo il legname illegale vale oltre 30 milioni di euro e viene spesso prelevato appiccando incendi nei boschi: nel 2017 in Calabria ne sono scoppiati 9000. 

Enel ha acconsentito, grazie alla pressione delle associazioni ambientaliste, a pubblicare i quantitativi di biomassa acquistata, con relative provenienze e ditte fornitrici, degli anni 2016 e 2017. I dati del 2018 e 2019, invece, sono rimasti inaccessibili. Il Forum “Stefano Gioia” ha ripetutamente fatto domanda formale di accesso agli atti, ma la nuova proprietaria Mercure S.r.l. ha sempre rifiutato di fornire i documenti, fondamentali per garantire la trasparenza. L’unica soluzione sarebbe ricorrere al TAR, ma è una spesa che il Forum non può permettersi.

Dai dati 2016, nonostante il “bacino locale” fosse a dir poco burrascoso, emerge che solo 83.000 tonnellate di cippato su oltre 380.000 arrivano “da lontano”. E la cifra si abbassa ancora nel 2017, con circa 50.000 tonnellate su 300.000 totali. In entrambi i casi, la biomassa per il Mercure proviene dalla Toscana: nel primo caso è fornita dalla società Termas S.a.c., nel secondo quasi interamente dalla Massoni P&M. Le due società, con sede a Lucca, sono entrambe collegate alla famiglia Massoni: Maurizio Massoni, socio al 50% di Massoni P&M, siede infatti anche nel Consiglio d’amministrazione di Termas. 

Tornando alla Centrale: come detto, nel 2017 la Massoni P&M rifornisce l’impianto Enel del Mercure. Il trasporto delle 42.430,94 tonnellate di biomassa toscana fino in Calabria solleva evidenti questioni sulla sostenibilità ambientale ed economica di una centrale costretta ad alimentarsi con materia prima distante oltre 700 km. E una domanda sorge spontanea: come vengono trasportati questi quantitativi – l’equivalente di più di 1.450 tir da 29 tonnellate di carico – da Lucca al comune di Laino Borgo, sede del Mercure? 

La risposta sembrerebbe trovarsi fra le carte di Regione Calabria: fra i servizi appaltati nel 2017, infatti, si trova un appalto del valore di 800.000 euro, destinato a un “servizio di trasporto di biomasse legnose da banchina commerciale del Porto di Corigliano Calabro al deposito presso la Centrale del Mercure”. Anche nel 2018 troviamo lo stesso appalto: il valore è di poco inferiore, 750.000 euro, ma scompare il riferimento al porto di Corigliano, sulla costa ionica della Calabria. “Servizio di trasporto biomasse legnose per la C.le del Mercure”, si legge: l’itinerario rimane però sconosciuto. 

L’appalto 2017 farebbe pensare a un trasporto via nave. Ma si possono fare solo congetture: la Massoni P&M, infatti, non ha voluto rispondere alle nostre domande, limitandosi a dichiarare che non sono autorizzati a rivelare i porti che utilizzano. Un dettaglio ulteriore però ci viene fornito proprio dalla stessa ditta: è di dominio pubblico, ci spiegano, che il porto di Livorno sia l’hub più importante per questo tipo di spedizioni. Gli approvvigionamenti per il Mercure, dunque, potrebbero (il condizionale è d’obbligo) avvenire lungo la tratta Livorno–Corigliano, attraverso lo Stretto di Messina. Un percorso, a guardare la mappa, che appare quanto meno bizzarro. Se così fosse, l’inquinamento derivante della spedizione del cippato via nave sarebbe molto maggiore rispetto al trasporto su gomma.

Utilizzando il database Thinkstep, approvato dalla Commissione Europea, è possibile farsi un’idea delle differenze di impatto ambientale delle due tipologie di trasporto. Queste valutazioni scientifiche vengono effettuate con dataset standardizzati e i risultati sono da considerare puramente indicativi. Trasportare le 42.430,94 tonnellate di biomassa dalla sede della Massoni a Lucca fino all’impianto del Mercure via tir (ipotizzando alimentazione a gasolio e peso totale 22 tonnellate) comporta, per un tragitto di 747 km, la produzione di circa 112.143 chilogrammi di CO2 (inclusa quella per produrre il combustibile). Ben diverso è l’impatto del trasporto via mare: se sommiamo la spedizione delle biomasse fino al porto di Livorno, la navigazione (per 743 km, con navi cargo con capacità di carico di 27.500 tonnellate alimentate a olio combustibile) e, di nuovo, il tragitto dal porto di Corigliano alla Centrale, arriviamo a 459.113 chili di CO2: quattro volte tanto rispetto al tir. La scelta di questo tipo di trasporto è peculiare: oltre ad essere maggiormente inquinante, richiede maggior coordinamento logistico. Per quale motivo viene scelto un porto sullo Ionio, quando la Centrale è molto più vicina alla costa tirrenica? Inoltre, stando al Piano di Approvvigionamento di Enel, gli accordi con i fornitori locali sono tutti «franco destino», ovvero con spese di spedizione a carico del fornitore: come si spiega dunque l’appalto per il trasporto Corigliano-Mercure? Tante domande, che vanno ad aggiungersi alla travagliata cronaca della Centrale.

Il legno di Pinocchio. Cos’è la biomassa legnosa?

Nel caso italiano della Centrale del Mercure viene utilizzata la biomassa legnosa (legname, ramaglie e residui di attività agricole e forestali, ma anche piante coltivate per la produzione di energia e derivati della legna solitamente convertiti in cippato o pellet), di tipologia solida, che subisce dei processi di conversione termochimica basati sull’azione del calore, attivando  le reazioni chimiche necessarie a trasformare la materia in energia. Le biomasse provenienti dalle foreste sono considerate “fonti a emissioni zero” poiché la combustione di legname e prodotti della manutenzione forestale viene considerata una forma di energia rinnovabile. È veramente così?

Il significato di biomassa oltre la biomassa

Secondo l’ISPRA, con il termine biomassa si intende “la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani” con la particolarità di essere utilizzabili per produrre energia e favorire l’abbandono dei combustibili fossili. Ad ogni tipologia di biomassa corrisponde una modalità per la conversione in energia ed una pluralità di soluzioni impiantistiche relative all’utilizzo di processi termochimici o biochimici. La definizione di biomassa non si esaurisce se non si contempla anche la sua accezione di fonte rinnovabile “in quanto il tempo di sfruttamento della sostanza è paragonabile a quello di rigenerazione”. Il concetto di rinnovabilità viene automaticamente e erroneamente legato alla sostenibilità ambientale “con particolare riferimento a quelle di origine forestale, che dovrebbero provenire da pratiche aventi impatto ambientale trascurabile o nullo”. 

Antonio Caputo di Isprambiente afferma che nel 2018 la percentuale del consumo interno lordo di biomasse, escludendo la parte rinnovabile dei rifiuti, rispetto al consumo interno lordo totale è stata dell’8%, poco inferiore alla media EU28 di 8,1% e EU27 di 8,4%. In termini di produzione primaria, invece, la percentuale nazionale è di 26,5%, la più elevata della media EU28 16,8% ed EU27  di 18,8%. E così in Italia, per accendere una lampadina, si sacrificano più di 50 Mton/anno di biomasse vergini.

La certezza di non essere sostenibile

L’idea che le biomasse legnose siano da considerare una valida alternativa ai combustibili fossili si basa sulla convinzione che il carbonio emesso dalla combustione degli alberi venga riassorbito da quelli piantati al loro posto. Ma Bartolomeo Schirone, professore ordinario, tra le altre, di Selvicoltura presso l’Università della Tuscia, sostiene che sia “una truffa definirle rinnovabili”. Le giovani foreste non sono in grado di sequestrare la stessa quantità di anidride carbonica delle precedenti generazioni di alberi, specie se, per esigenze industriali, le piante vengono abbattute prima che siano completamente cresciute. “Alla Centrale del Mercure c’era l’intento di piantare alberi a crescita rapida, ma anche in questo caso non sarebbe bastato a compensare le emissioni prodotte”. Un albero non cresce istantaneamente perché impiega fino a 150 anni (relativamente alla genealogia della pianta) per raggiungere la sua maturità sfruttando una certa quantità di carbonio che è fissata dall’azione formidabile della radici. “Essa permane nel suolo, che contiene fino a 8 volte più carbonio della parte esterna della pianta: già questo dà una misura di quanto carbonio venga bloccato dalle piante con tempi lunghissimi”. Per diminuire significativamente le quantità di CO2 emesse in atmosfera non si dovrebbero bruciare in primo luogo le biomasse legnose con un’emissione di anidride carbonica superiore a quella dei combustibili fossili. Le emissioni extra derivano poi dalla combustione del legno stesso, che rilascia particelle inquinanti in atmosfera, dalla filiera produttiva per la lavorazione del legno e dal fatto che suoli e radici continuino a rilasciare carbonio per anni, anche dopo l’abbattimento della pianta. Tuttavia, secondo Caputo, il concetto di sostenibilità legato alla biomassa varia, poiché “se prendiamo come esempio il settore del riscaldamento residenziale, la combustione di biomassa risulta una delle principali fonti di emissione di PM2,5 (il particolato) mentre potrebbe essere considerata sostenibile per quanto riguarda le emissioni di gas climalteranti. Ovviamente, occorre ampliare il campo di osservazione anche alla produzione, al trasporto e tutta la filiera di produzione, distribuzione e utilizzo del vettore energetico in questione”.

 

Tuttavia, anche l’Unione Europea considererebbe la legna da ardere una fonte di energia pulita: in Europa il 65% dell’energia “da fonte rinnovabile” viene originata da pellet. In tal senso, il 4 marzo 2019 un gruppo di organizzazioni no profit e cittadini da sei paesi (Estonia, Francia, Irlanda, Romania, Slovacchia e USA) ha presentato alla Corte di Giustizia europea un’azione legale per rimuovere le biomasse legnose dalle energie rinnovabili. 

L’Italia, insieme alla Grecia, ha la maggior biodiversità della specie, producendo un alto valore del legno che viene richiesto dal mercato per usi particolari. Secondo Schirone, il significato di bruciare questo legname potrebbe fruttare in termini di reddito: l’uomo ha bisogno di determinati materiali e li utilizza. Bisogna farlo con il dettato della selvicoltura, ma a prescindere, l’estrazione del materiale legnoso deve essere intelligente. “Il rischio è che, tra non molto, ci troveremo a bruciare questo materiale con un’intrinseca nobiltà e poi ad importarlo dall’estero”, ribadisce Schirone, dal momento che il legno italiano non è sufficiente. D’altronde, non avrebbe senso bruciare biomasse se non ci fossero incentivi per le aziende e diverse direttive europee.

L’ambiente e l’uomo: vittime della stessa combustione

I danni per l’ambiente, sia diretti (e più visibili) che indiretti, sono difficilmente calcolabili. “Dal 2016 al 2018, rispetto al periodo dal 2011 al 2015, la superficie forestale utilizzata in Europa è cresciuta del 49%, con una perdita di biomassa del 69%. L’Italia ha visto un incremento del 70%, con un aumento di superfici tagliate nello stesso periodo, quando nel periodo 2011-2015 si arrivava al +125%”, spiega il prof. Schirone a Scomodo. 

Considerando la morfologia del territorio, Il Presidente della Internal Society of Doctors for the Environment Italia sottolinea la posizione svantaggiosa della Centrale del Mercure, situata in una valle caratterizzata dal fenomeno dell’inversione termica e quindi senza un sufficiente ricambio dell’aria, che causa la persistenza aerea e la sedimentazione al suolo degli inquinanti emessi dai processi di combustione generati dalla Centrale. Da ciò deriva un impatto ulteriore sulla salute delle persone, e Mercure difficilmente si esimerebbe dalle condanne: nonostante la centrale sia dotata di filtri al camino, contribuisce all’emissione di PM2,5 (“il più importante agente cancerogeno ambientale, ancor più del fumo passivo”, secondo IARC) ed altre sostanze tossiche ottenute dalla combustione del legno. Se non fosse abbastanza, facendo riferimento ai dati ISPRA relativi ai fattori di emissione per le centrali elettriche da biomassa legnosa, ogni anno si assiste in Italia a circa 1.500 morti premature, per patologie respiratorie o cardiovascolari, causate dall’attività di combustione nelle centrali a biomassa solida legnosa.

 

Nel frattempo, il prof. Schirone induce in conclusione a riflettere: perderemo e stiamo perdendo anche in seno al turismo verde che ha cominciato affermarsi negli ultimi anni. Chi verrebbe dall’estero per godersi il paesaggio naturalistico col rischio di  trovarsi invece ad ammirare i cantieri forestali?

Il futuro dell’energia o è locale o non è

Le reti energetiche costituiscono l’ossatura di un Paese industrialmente sviluppato e mai come oggi il tema dell’energia rappresenta un punto critico per lo sviluppo sostenibile. Le politiche su clima ed energia in Europa stanno attraversando una fase di profonda revisione a seguito di quanto concordato nell’ambito della Cop21, che mira a contenere entro il 2030 l’aumento della temperatura media globale sostanzialmente al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali. 

 

L’Italia è tra i paesi con la quota di energia da fonti rinnovabili più elevata (ISPRA), e tuttavia di la transizione verso un modello di fatto più sostenibile, come sottolinea la campagna di Fridays For Future “NonFossilizziamoci”, sta procedendo ad un ritmo che impedirà di raggiungere la decarbonizzazione entro il 2050 (obiettivo imposto dall’UE). Questo è dovuto in parte ad un sistema energetico che utilizza ancora oggi in prevalenza combustibili fossili e che si caratterizza per i tratti estremamente accentrati. 

L’abitudine…

L’attuale modello consiste in grandi impianti di produzione capaci di generare energia – per centinaia di MW – che viene immessa in una rete unidirezionale di trasmissione e poi di distribuzione. Al funzionamento di questo sistema contribuiscono le grandi centrali e il sistema di distribuzione che ne deriva.


Il sistema centralizzato risponde, tuttavia, alle esigenze di una produzione prevalentemente basata sull’utilizzo di combustibili fossili, che per le loro caratteristiche e relativi processi di conversione si adattano maggiormente a un sistema concentrato in nuclei di grandi dimensioni. 

Gli impianti di grande taglia, infatti, si sono sviluppati grazie a costi specifici di investimento minori, ed al fatto che la loro efficienza aumenti con la potenza installata. Inoltre, i sistemi di approvvigionamento del combustibile, nonché i sistemi di trattamento fumi, risultano essere antieconomici se applicati ad impianti di limitate dimensioni. In altre parole, la produzione di energia in grandi unità, nel caso dei combustibili fossili, permette di ridurre i costi generali attraverso lo sfruttamento dell’economia di scala, e inoltre di aumentare la produttività del sistema in sé. Non da ultimo, da considerare è il fatto che, data la scarsa volontà della cittadinanza di accettare l’invasività di determinate strutture, risulta più facile realizzare pochi impianti di grosse dimensioni in luoghi distanti dai centri abitati, che non tanti impianti di medie e piccole dimensioni necessariamente vicine ad abitazioni. 

 

La necessità di avere pochi grandi impianti nel corso del tempo ha favorito quindi l’affermarsi di un modello costituito da pochi attori, capaci di concentrare ingenti capitali da investire e nelle cui mani va a consolidarsi un forte potere di controllo. Il fatto che il sistema attuale si basi ancora in prevalenza sulle fonti di energia non rinnovabile, e ne favorisca l’utilizzo, limita la transizione del nostro Paese verso una produzione energetica più sostenibile.

… e l’alternativa

Un’alternativa a questo modello tuttavia c’è, e sta ricevendo sempre più attenzione anche in Italia. Si tratta di un sistema che, ponendosi agli antipodi di quello fino ad ora descritto, viene definito “decentralizzato”, proprio perché non più basato su grandi centrali elettriche, ma su numerose unità di produzione di piccola-media dimensione che utilizzano fonti di energia pulita. Parliamo quindi di campi eolici, fotovoltaici, centrali a biomasse o cogeneratori che, distribuiti sul territorio, forniscono energia ad un singolo edificio ed in alcuni casi contribuiscono a costituire una vera e propria rete energetica.

I benefici di questo modello sono molti e di varia natura. L’associazione Resilient Gap del Politecnico di Milano, ne indica alcuni: “A livello tecnico la generazione distribuita di energia presenta dei vantaggi, poiché essendo l’impianto in prossimità del consumatore, le perdite di elettricità lungo le linee di trasmissione e distribuzione sono quasi azzerate. Gli impianti di piccola taglia possono inoltre godere di economie di scala dovute alla standardizzazione, e si prestano alla cogenerazione di energia elettrica e calore”. 

 

Il sistema non implica solo meno sprechi e minor costi per le aziende di produzione, anzi. Ma permette di ridurre anche le spese dei consumatori: “Gli incentivi statali sull’autoconsumo elettrico e lo scambio sul posto, uniti alla possibilità d’integrazione con l’impianto di riscaldamento della casa, procurano un evidente ed immediato risparmio nelle bollette”. 

Una produzione da fonti rinnovabili, inoltre, non rende i consumatori soggetti alle oscillazioni di prezzo tipiche dei combustibili fossili e quindi può favorire il risparmio.

 

Il vantaggio più importante di questo sistema, d’altronde, rimane l’utilizzo di fonti rinnovabili, che riduce esponenzialmente l’impatto ambientale del nostro consumo energetico e implica un ruolo attivo del cittadino nel processo di produzione d’energia. Il modello decentrato dunque non permette solo di rendere autosufficienti dal punto di vista energetico nuclei familiari o edifici, ma può anche dare origine ad un’economia locale basata sullo scambio di energia e dalla quale i cittadini potrebbero ricavare un profitto diretto. Questo tipo di produzione in Italia potrebbe poi avere un ruolo importante nel contrasto alla povertà energetica, cioè l’impossibilità di accedere ai servizi energetici primari, che nel 2016 vedeva coinvolte 2,2 milioni di famiglie.

Vie di mezzo

Lo sviluppo di questo modello ovunque sia possibile e pratico è dunque auspicabile se si vuole convertire il nostro sistema energetico attuale in uno più sostenibile. Rimane tuttavia da verificare quanto questo tipo di produzione possa di fatto soddisfare il fabbisogno energetico nazionale. I limiti del sistema decentrato corrispondono alle più generali criticità che tutte le fonti di energia rinnovabili hanno e si legano quindi alla loro natura aleatoria. Le fonti rinnovabili, ad esempio fotovoltaico ed eolico, infatti creano difficoltà a causa della loro produzione intermittente e non programmabile, che non garantisce sempre una produzione costante e sufficiente. Questo elemento, unito alla limitata capacità delle batterie nello stoccare e conservare energia, fa sì che la produzione di un sistema decentralizzato a fonti rinnovabili non possa soddisfare interamente e continuativamente la richiesta di energia nazionale e in particolare quella proveniente dall’industria pesante. I professori Spertino e Tartaglia, del Politecnico di Torino, spiegano: “Restano fuori le entità che abbisognano di grande potenza concentrata e che più naturalmente si abbinano a impianti di produzione anch’essi concentrati e di grande potenza. Questi ultimi sono quelli che possono creare maggiori problemi alla stabilità della rete, perché la loro connessione e il distacco tendono a creare forti squilibri, cosa che non avviene per piccoli impianti dispersi sul territorio”.


Il futuro che si prospetta è quindi più presumibilmente un sistema energetico eterogeneo, che includa sì una produzione centralizzata (possibilmente a fonti rinnovabili), ma anche una fortemente decentrata più vicina agli utenti. La presenza di quest’ultima produzione rimane infatti cruciale per la costruzione di un modello energetico green ed efficace, che limiti gli sprechi e riduca l’inquinamento. Il potenziale c’è ed è dimostrato da dati, come ci ricorda Resilient Gap: “Il fotovoltaico su tetto ed eolico onshore in ottemperanza alle norme attuali (quindi senza andare a deturpare i territori né avvicinarsi troppo a zone abitate) coprirebbe un 60% circa dell’attuale fabbisogno nazionale”.

Comunità

Diretta espressione del sistema di produzione decentralizzato sono le comunità energetiche, di cui recentemente in Italia è stato definito il quadro normativo. Come spiega a Scomodo il Professor Ruggieri del Politecnico di Milano, infatti, il decreto Milleproroghe approvato a maggio 2020 dà dignità giuridica alle comunità energetiche (già previste dalla direttiva europea RED II), aprendo una fase transitoria che terminerà nel giugno 2021 con il recepimento della direttiva europea stessa. Le comunità energetiche oggi sono definite come soggetto giuridico nel quale cittadini e imprese si uniscono per produrre, consumare e vendere energia, attraverso impianti di produzione rinnovabile, di taglia individuale non superiore ai 200 kW di potenza ed entrati in attività dopo il 1° marzo 2020. 

Storicamente le comunità energetiche in Italia esistono già da diversi anni: con la prima fondata nel 1927, il numero ammontava già a 144 comunità prima del Milleproroghe, ma si trattava di enti tutelati da norme e regolamenti ad hoc. In questo contesto significativa è l’esperienza dei 41 comuni 100% rinnovabili, ovvero quelle realtà territoriali che oggi possiamo definire autosufficienti dal punto di vista energetico, elettrico e termico ed il cui mix di fonti rinnovabili installate garantisce il riscaldamento di case, uffici, acqua calda per usi sanitari ed usi elettrici. Questi comuni, nonostante rappresentino degli esempi limitati, sono un riferimento importante e originale perché guardano ad un futuro energetico caratterizzato da un modello distribuito, con una quota sempre maggiore di autoproduzione da fonti rinnovabili.  

In conclusione, le comunità energetiche svolgono un ruolo importante anche rispetto all’educazione energetica del cittadino. Come sottolineano infatti i professori Spertino e Tartaglia, “il coinvolgimento in una comunità implica anche una corresponsabilizzazione nelle scelte e anche nella promozione di cambiamenti nei confronti del modo di consumare l’energia oltre che di produrla. Il cittadino diventa così prosumer (crasi di produttore e consumatore) e diventa consapevole che l’energia è ‘linfa vitale’ di una comunità e come tale va trattata e gestita”.

Con i contributi di

Costanza Hippoliti
Costanza Hippoliti

Redattrice

Gabriele Druetta
Gabriele Druetta

Redattore

Geremia Trinchese
Geremia Trinchese

Redattore