- Introduzione
- Parte I
- Parte II
- Parte III
- Dicembre 18, 2018
Breve viaggio nelle due anime del cinema italiano
L’industria cinematografica italiana dopo la fine del fascismo e della guerra si è fatta quasi inesistente. Cinecittà è stata depredata durante la guerra e viene sfruttata per far dormire gli sfollati. Il cinema italiano sembra ormai defunto. Eppure fanno il loro ingresso in scena un manipolo di autori e registi che, con i pochi mezzi a disposizione, realizzano pellicole che fanno scuola in tutto il mondo. Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Luchino Visconti diedero vita ad una breve ma intensa stagione del cinema italiano, impressa nel tempo con il nome di Neorealismo. Nota ai più per l’utilizzo di attori presi dalla strada, scelta per lo più condizionata da una vera e propria mancanza di maestranze attoriali e per la narrazione di storie drammaticamente reali di vita quotidiana, ha condizionato per sempre sia il modo di intendere il cinema e l’uso della macchina da presa che una certa visione dell’italianità all’estero, vigente più o meno fino all’avvento di Fellini e della sua Dolce Vita. Un’italianità legata alla vita semplice, di paese espressa benissimo da un certo filone di film come quelli di Pane e Amore con Vittorio De Sica. L’insieme di elementi che caratterizzano il cinema italiano sia nelle atmosfere che nelle tematiche mutano e si modificano nel tempo continuando comunque a mantenersi in una serie di matrici per cui, di fondo, rimangono quelli. L’interesse che scatena il neorealismo all’estero e le grandi file che si formano a New York per vedere Ladri di Biciclette rimette subito in sella la nostra industria che quasi subito dimentica l’inventiva registica dei maestri neorealisti per aprire le porte agli investitori americani offrendo un’ottima manovalanza a basso costo. Il tutto nell’interesse dello Stato che vede nel cinema l’opportunità di rilanciare il paese agli occhi del mondo. Usando il cinema come mezzo di espansione economica lo Stato pone le radici di un regolamento finanziario che, mutato dalle varie leggi che si sono susseguite, ha influenzato una certa maniera di concepire il film e la sua funzione. Dagli anni ’60, con l’avvento della Legge Corona sui finanziamenti e il conseguente mutamento della concezione di film da oggetto di mercato a oggetto culturale, la cinematografia italiana e la sua contenutistica, pur subendo ancora l’influenza degli stili passati, inizia a rientrare dentro dei parametri culturali di valutazione non chiaramente tracciabili e abbastanza fumosi. Con la difficoltà di raccapezzarsi su questi parametri emerge però una certa tendenza del cinema italiano a fossilizzarsi su determinate tematiche. Attraverso un’analisi sulla macchina operativa del cinema italiano, abbiamo cercato di delineare due particolari tendenze, due modi di vedere la produzione artistica e in generale l’arte filmica. Perché se da una parte abbiamo i numeri e le statistiche che caratterizzano la pressione indiretta che esercita lo Stato sul cinema, dall’altra abbiamo la testimonianza diretta di una figura̶ simbolo di una certa produzione creativa che viaggia su di un’ onda a sé, lontana dai dogmi culturali e sociali imposti. Attraverso le parole di Enrico Vanzina cerchiamo di dare un’idea di una delle due forze che, nella loro convivenza, mantengono la stabilità nell’industria. Partendo dal film che più di tutti rappresenta il liberalismo che cerchiamo di raccontare: Vacanze di Natale.
Da Vacanze di Natale è nato un vero e proprio genere, come si è evoluto per lei con il passare degli anni?
Vacanze di Natale era un grande film. Lo era perché miscelava la commedia con l’osservazione della realtà.
In seguito il genere mutò pelle.
Con Carlo abbiamo fatto pochi film di Natale. Vacanze in America era un divertimento giovanile. Montecarlo Gran Casinò era un film classico a episodi. Sognando la California fu un buon film generazionale. SPQR un grande spettacolo in costume, ma con l’idea di parlare dell’Italia di mani Pulite. A spasso nel Tempo era un Disney all’italiana. Il nostro ultimo Vacanze di Natale 2000 era una fotografia dell’Italia già in crisi. Poi quei film li fecero altri. Diventarono delle farse ambientate nel mondo. Finirono anche quelle. E il genere sopravvisse ma con affanno. Oggi è morto.
Che ruolo ha avuto per lei Sapore di Mare e Vacanze di Natale all’interno della storia della Commedia all’Italiana?
Furono l’iniezione salutare nel corpo di un cinema vecchio che stiracchiava il talento di Sordi, celentanesco e Pozzetto. Furono una grande novità. A distanza di anni sono considerati anche dei film ottimi.
Secondo lei si può stabilire una presunta fine della Commedia all’Italiana o perlomeno di quel modo di intendere e fare la commedia?
Mi dispiace parlare di me…Ma l’ultima commedia vera all’italiana è Il Pranzo della Domenica. Perché fu scritto e realizzato seguendo i modelli nobili dei nostri predecessori.
Lei ha scritto e prodotto l’ultima produzione italiana firmata Netflix, cosa pensa delle nuove modalità di intrattenimento seriale e cinematografiche importate proprio da Netflix?
E’ il futuro. Inutile dichiarare guerra a Netflix. In futuro il cinema verrà visto, oltre che in sala, dove spero possa continuare ad avere vita lunga, su tanti altri supporti.
Come vede lo snobismo nei confronti di un cinema di matrice popolare come il suo da parte di una certa critica o un certo pubblico che si definisce più d’elite?
E’ il grave errore che ha condizionato la critica nei riguardi del cinema italiano popolare. In realtà è stata proprio la commedia a raccontare meglio di altri generi il nostro paese.
Oggi lo hanno capito. E si scusano. Fanno imbarazzanti marce indietro.
Vista la sua più che decennale carriera, rispetto ai finanziamenti statali che spettano alle produzioni cinematografiche, qual è stato il “trattamento” nei vostri confronti? E quali sono i parametri, soprattutto culturali, che portano un film ad avere maggiori finanziamenti rispetto ad un altro? E’ possibile dire che il Ministero, nel corso degli anni, stabilendo dei parametri che portano a dare maggiori finanziamenti ad una produzione rispetto ad un’altra vuole veicolare una propria visione di cinema ideale?
I nostri film non hanno mai avuto finanziamenti. A parte quelli automatici per tutti.
Il Ministero ha scelto di finanziare a pioggia molti film. Non credo avesse una sua visione del cinema. Certo, oggi, viene un dubbio: forse era meglio finanziare con più denaro pochi film e renderli più competitivi, fatti meglio, piuttosto che finanziarne una enorme quantità, producendo film invisibili e visti pochissimo dal pubblico.
Tra stato e cinema
Partendo dalle risposte di Vanzina, è evidente che il meccanismo dei finanziamenti statali abbia creato grandi fratture e divisioni all’interno dell’industria cinematografica italiana.
Con l’approvazione della sopracitata Legge Corona sui finanziamenti statali, a metà degli anni ‘60, inizia a prendere piede in Italia l’idea che i film non siano elementi sul mercato alla ricerca di un proprio pubblico, ma piuttosto dei beni culturali. Quindi, al pari del teatro, il cinema diventa un qualcosa di costoso che non ha un vero mercato di riferimento e che quindi necessita di essere aiutato e sostenuto dallo stato.
Il 3 novembre 2016 l’ex Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini annuncia su Twitter l’approvazione della nuova legge “Disciplina del cinema e dell’audiovisivo”, con l’obiettivo di dare “regole trasparenti e più risorse per film, sale e giovani.” Viene così modificato il sistema di gestione dei finanziamenti e contributi statali per il cinema. Nasce il “Fondo cinema e audiovisivo”, un fondo autonomo di almeno 400 milioni annui per il sostegno dell’industria cinematografica.
Fino a quel momento, tutte le risorse erano gestite dal “Fondo unico per lo spettacolo” che doveva occuparsi di tutti i settori del mondo dello spettacolo, quindi oltre al cinema anche la danza, la musica, il teatro e le attività circensi. Nel 2014, due anni prima della nuova legge, il “Fus” aveva una disponibilità di € 406.229.000, di cui il 18% è stato destinato al cinema.
Prima di Franceschini l’intero sistema dei finanziamenti pubblici si basava sull’ “interesse culturale” dei film. In pratica, soltanto le opere che avevano riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali la qualità di “interesse culturale” potevano accedere ai contributi statali. Per poter fornire un’analisi più completa e approfondita possibile di un fenomeno che ha caratterizzato la maggior parte della produzione cinematografica italiana più o meno recente, la redazione di Scomodo ha chiesto aiuto a Andrea Minuz, scrittore e professore associato di storia del cinema dell’università “La Sapienza” di Roma, il quale ci ha fornito molti degli spunti di riflessione da cui si è sviluppato questo articolo.
L’interesse culturale
La questione dell’interesse culturale pone fin da subito un grande problema – spiega Minuz – Da un punto di vista astratto è chiaro a tutti che il cinema sia “culturale” come qualsiasi altra forma d’arte, ma nei fatti diventa molto difficile andare a stabilire quale film sia effettivamente d’interesse culturale (e quindi può ricevere finanziamenti) e quale no. Il sistema che ha caratterizzato gli ultimi decenni di cinema italiano vede questa scelta affidata a diverse commissioni ministeriali, cosa che, soprattutto negli ultimi anni, ha attirato numerose critiche e suscitato polemiche a causa del grande alone di mistero attorno ai criteri di valutazione secondo i quali un film sarebbe dovuto essere degno o meno di ricevere soldi dello Stato. “L’Espresso” in un articolo di marzo 2018 parla di “chiacchierate commissioni ministeriali degli scorsi decenni, spesso teatro di scambi e pastette”. Il programma di giornalismo d’inchiesta “Report” ha dedicato l’intera puntata del 17 aprile 2017 al tema dei finanziamenti statali per il cinema, sottolineando come tra i destinatari dei contributi ci fossero anche film più commerciali, come “Sapore di te” di Carlo Vanzina, “Amici miei – come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, o “Il ricco, il povero e il maggiordomo” di Aldo Giovanni e Giacomo. Tutti film che sono stati finanziati (o che hanno sfruttato agevolazioni fiscali) secondo il vecchio disegno di legge.
Fino a qualche anno fa le commissioni ministeriali prestavano scarsissima attenzione alla sostenibilità economica dei progetti – continua Minuz – Piuttosto valutavano soltanto la parte contenutistica, basandosi su una concezione molto didattica e tradizionale della cultura vista esclusivamente come la trattazione di grandi temi sociali o d’impegno civile o politico. E’ chiaro quindi come un sistema così chiuso non può non influenzare l’industria cinematografica, che già negli anni ‘80 e ‘90 inizia a entrare in crisi e richiede sempre di più la presenza di fondi statali.
Chi scrive sceneggiature quindi si trovava obbligato a dover ragionare nell’ottica di soddisfare i giudizi di una commissione che valuta soprattutto gli aspetti sopracitati. Per cui, mentre in alcuni paesi lo sceneggiatore ha come punto di riferimento solamente il pubblico, in Italia fino a pochi anni fa c’è sempre stata la necessità di incontrare anche il gusto di una commissione ministeriale che non deve decidere se il film è bello o brutto, ma se è culturale o meno. Ancor di più se si considera che negli anni ‘90 in alcuni casi i finanziamenti statali erano arrivati a coprire più dell’80% del costo di un film. Questo permetteva di fatto ai produttori di evitare qualsiasi rischio in prima persona nel caso in cui il film fosse andato male e di guadagnare nel caso fosse andato bene. Per cui diventava sempre più necessario fare in modo che il proprio film fosse in qualche modo culturale.
A questo problema si aggiunge poi la poca chiarezza dell’aggettivo culturale. La concezione di cultura che c’era negli anni ‘60 è ovviamente del tutto diversa da quella attuale e perciò la questione dell’interesse culturale a volte ha rischiato di cristallizzare il cinema italiano attorno a un’idea di cultura molto limitata e pedagogica. Nel frattempo però il mondo è cambiato e con l’arrivo delle serie tv, dei videogame e di internet il significato di cultura si è molto ampliato. E’ diventato cultura anche il cibo, basta vedere l’enorme quantità di programmi di cucina e libri di ricette che sono stati realizzati negli ultimi anni. In conclusione – dice Minuz – lo scopo della legge Franceschini è stato quello di togliere la nozione di interesse culturale. I film non saranno più valutati soltanto sulla base di questo parametro ma anche sulla credibilità del progetto finanziario.
Il film ideale
Alla luce di questo è chiaro come la produzione cinematografica italiana sia il risultato di questo sistema. Negli anni si è delineato un modello di film “culturale” che, anche se non è chiaro su che parametri si sia basato, è stato il fulcro di buona parte del cinema degli ultimi decenni. La macro-divisione che si può individuare nel panorama del cinema italiano quindi è proprio questa: da un lato i film di interesse culturale, approvati e finanziati dal Ministero, dall’altro tutto il resto.
La lista più recente dei film “di interesse culturale” finanziati dallo Stato sul sito del MiBAC risale ancora a quando la legge Franceschini non era attiva. Si tratta di 25 titoli che nel dicembre 2016 sono stati riconosciuti di interesse culturale e di cui 18 sono stati finanziati.
E’ interessante vedere come ci siano alcuni nomi che ritornano in più film.
Valerio Mastandrea per esempio recita come attore in “Un figlio di nome Erasmus”, in uscita nel 2019, e fa da regista in “Ride”, uscito il 29 novembre. Entrambi i titoli sono stati riconosciuti di interesse culturale, anche se solo uno aveva effettivamente richiesto dei fondi. In più recita anche “Euforia”, film di Valeria Golino che aveva richiesto un contributo pubblico sempre nel dicembre del 2016 ma senza ottenerlo perché “non in possesso dei requisiti per il riconoscimento dell’interesse culturale”.
Ricompare in due film della stessa lista anche Giuseppe Battiston in “Tu mi nascondi qualcosa” di Giuseppe Loconsole e in “Troppa Grazia” di Gianni Zanasi. Quest’ultimo titolo vede tra gli attori anche Alba Rohrwacher che a sua volta recita in “Lazzaro felice”, girato dalla sorella Alice. La maggior parte di questi progetti ha ricevuto finanziamenti statali e tutti sono stati riconosciuti di interesse culturale.
Ovviamente ciò non vuol dire che il Ministero voglia favorire certi attori rispetto ad altri, ma semplicemente sottolinea come di fatto le opere “di interesse culturale” siano molto legate ad un particolare modello cinematografico, che viene rappresentato e interpretato da un determinato genere di attori e di registi.
In realtà già a partire dagli anni 2000 la possibilità per un produttore di ottenere i fondi necessari alla realizzazione del proprio film è aumentata di molto, per esempio attraverso i bandi europei o il product placement, introdotto nel 2004 con il decreto Urbani. Tuttavia, nonostante questo, il contributo statale – e i suoi meccanismi – rimangono la fonte di risorse principale per la maggior parte del cinema italiano.
La nuova legge Franceschini avrebbe dovuto dare maggiore trasparenza e più oggettività alle decisioni delle commissioni ministeriali, ma ancora una volta i criteri di valutazione sono poco chiari e praticamente introvabili anche nei più remoti meandri del sito web del Ministero dei Beni Culturali. Abbiamo contattato Enrico Magrelli, membro della Commissione per la Cinematografia, per avere dei chiarimenti. Questa provvede al – citando lo stesso sito del MiBAC – “riconoscimento dell’interesse culturale, in fase progettuale, dei lungometraggi ed alla definizione della quota massima di contributo assegnabile; provvede anche all’attribuzione di contributi per lo sviluppo di sceneggiature originali”. I criteri sono tanti e molto specifici. Ovviamente il progetto deve essere originale, scritto bene e deve avere una sua solidità narrativa. In più, ci deve essere anche una stabilità e coerenza economica.
I finanziamenti statali nel corso degli anni hanno reso possibile la realizzazione di molti film che non avrebbero mai trovato i fondi necessari per essere prodotti. Per questo sarebbe ovviamente impensabile dire che questi non sono serviti a nulla o che addirittura “sarebbe stato meglio se non ci fossero stati”. Semplicemente bisogna accettare il fatto che la produzione cinematografica italiana dagli anni ‘60 in poi è anche il frutto di questo sistema, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Il sistema francese
Quello francese è il sistema di finanziamenti pubblici più funzionante e all’avanguardia in Europa. Nonostante le numerose polemiche e dibattiti che questo ha suscitato, la Francia è una delle nazioni europee che investe la maggiore quantità di denaro nell’industria cinematografica. Non a caso la legge Franceschini si rifà proprio al modello d’Oltralpe.
La maggior parte dei fondi pubblici francesi è gestita dal “Centre national du cinéma et de l’image animée” (CNC), con un budget annuo di circa 700 milioni di euro, soldi che vengono raccolti tramite la tassazione sul prezzo dei biglietti dei cinema (i cui proventi vengono riutilizzati per la maggior parte per la ristrutturazione delle sale cinematografiche),sulle aziende televisive e sui video on demand su internet. I fondi vengono poi elargiti in due modi, tramite meccanismi selettivi e meccanismi automatici. I primi, gli “avance sur recettes”, servono a finanziare i nuovi talenti e a favorire la varietà del cinema francese. Simile al modello italiano pre-Franceschini, una commissione decide sulla base di determinati parametri a chi dare il finanziamento. Solo che in questo caso si tratta di una sorta di prestito a tasso zero che deve essere ripagato con gli incassi del film. Secondo “Le figaro”, soltanto il 10% dei prestiti viene ripagato. Il secondo meccanismo – introdotto anche in Italia dalla legge Franceschini – consiste invece in dei finanziamenti che vengono dati automaticamente in base alla quantità di incassi di un film in maniera proporzionale. Cioè maggiori sono gli incassi, maggiore sarà il finanziamento che riceverà il produttore, il quale però dovrà reinvestire il denaro statale in un nuovo film di carattere nazionale.
A questo si aggiungono poi le “Societés de financement du cinéma”. Delle società che raccolgono denaro da privati e aziende che in cambio della donazione possono ricevere particolari agevolazioni fiscali. Il denaro raccolto viene poi utilizzato per finanziare alcune opere cinematografiche precedentemente approvate dal CNC.
In questo modo i fondi vengono distribuiti a due diverse categorie cinematografiche. Da un lato con i finanziamenti automatici, ai film che incontrano il grande pubblico francese e che in alcuni casi riescono ad uscire anche dai confini nazionali, come il vincitore di 5 premi oscar “The artist”. Dall’altro viene favorita anche quella fascia di cinema più autoriale, di nicchia, che ha un bacino di spettatori molto ristretto. E questa doppia politica sembra avere degli effetti positivi, come spiega il regista Roberto Andò, proteggendo questa varietà di cinema, con cui nel tempo la Francia ha creato le condizioni necessarie alla sopravvivenza di un certo tipo di pubblico. Un interlocutore culturale che in Italia non esiste più. Il suo ultimo film, “Una storia senza nome”, fa parte della lista dei film finanziati dal ministero sempre nel dicembre del 2016.
Il sistema francese, seppur non perfetto, è sicuramente un punto di riferimento per tutti gli altri paesi europei. La legge Franceschini, pienamente a regime dal gennaio 2018, dovrebbe avvicinare l’Italia a tale modello, ma per poter dare un qualsiasi giudizio bisognerà aspettare ancora diverso tempo.
Psicosi dell’autorialità
Quella della legge Franceschini è un’evoluzione legislativa che ha soltanto recentemente tentato di alleviare una tendenza “statalista” del cinema italiano. Uno “statalismo” che si manifesta chiaramente nella stessa genesi di scrittura di un film, concepito e pensato per passare il vaglio delle commissioni ministeriali e non, come in USA, quello del pubblico. Il paletto ministeriale finanziario provoca nel cinema italiano una cristallizzazione della produzione artistica che porta da una parte una serie di autori a sfoggiare l’impegno civile e il valore del messaggio e dall’altra una commedia, anch’essa portatrice di valori civili e caratterizzata da una certa raffinatezza di scrittura ma che viveva dei grandi attori davanti alla macchina da presa, ponte diretto verso il pubblico più generale a cui interessava più la presenza di Sordi che della storia operaia. Per quanto poi di fondo il cinema italiano a cavallo tra i ’60 e ’80 viva di mescolanza continua tra tematiche più impegnate e messe in scena leggere. Questo, oltre ad essere il principio alla base della commedia all’italiana, permette la convivenza delle due visioni contraddittorie, ma non inavvicinabili, del concetto di cinema sia come oggetto culturale che di mercato. Per quanto la stessa commedia italiana degli anni ’50, ’60 e primi ’70 sia ritenuta di grande livello su ogni punto di vista rimane infatti tuttavia una psicosi collettiva, diretta conseguenza della logica statale del finanziamenti, definibile come “l’inseguimento dell’autorialità”. Un’autorialità che non può essere legata alla commedia, data anche la mancanza in Italia di un’idea di “commedia brillante” che in America si diffonde dall’avvento di Lubischt, bensì ad una dimensione “seriosa” della storia filmica. Se fai ridere sei entertainment, se fai riflettere sei un autore di impegno civile. Questa spaccatura limitante e superficiale pone già le sue radici negli anni ’70, manifestandosi in maniera più lampante verso gli anni ’90 e i primi ‘2000. Infatti, se da una parte il cinema “serio” continua a vivere grazie ad un continuo ricambio di autori, tuttavia non a livello di predecessori come Elio Petri, Florestano Vancini o Francesco Rosi, (anche perché la committenza rimane basata sugli stessi criteri di valutazione ministeriali, quasi invariati nel tempo), la commedia soffre irreversibilmente l’invecchiamento dei loro totem, i cosiddetti “mattatori”, gli attori che avevano dato volto e gloria al genere e ai registi dietro la cinepresa, ai quali con un Sordi dall’altra parte della macchina bastava dire “ciak e azione”. Giungendo all’epilogo con Amici Miei atto II la Commedia italiana si trovava alle porte degli anni ’80 in qualche modo orfana dei grandi interpreti del genere. Questo perché se ad un Moretti non occorre altro che Nanni Moretti un Monicelli può sentirsi spaesato senza un Sordi. In mezzo all’espansione del cinepanettone e all’ormai crepuscolare ma sempre gittata saga fantozziana, nei primi anni ’90 si sviluppa un certo cinema medio che, con un livello decisamente più basso di scrittura, sancisce un certo compromesso tra messaggio sociale e intrattenimento. Questo si fa ponte tra il cinema di impegno civile e la commedia leggera, compromesso che in qualche modo riesce a soddisfare critica e pubblico. Una tendenza che si può grossolanamente sancire con i primi film di Paolo Virzì, autore da un certo punto di vista non inferiore rispetto ai commedianti del passato, e che prende decisamente piede dai primi 2000 ad oggi con l’autore più emblematico nel rappresentare la categoria, Paolo Genovese, e didascalicamente raffigurata dal cinema di Massimiliano Bruno e da i film di Paola Cortellesi. L’ultimo successo dell’appena citata, Come un gatto in tangenziale ne è un ottimo esempio. L’affermazione di questo cinema medio, ponte tra quello che noi definiamo in maniera vagamente astratta “cinema di stato” rispecchiante i valori di impegno civile e la commedia più leggera e di massa, come il redditizio cinepanettone prima vanziano e poi parentiano, è un processo lento che tuttavia si concretizza proprio con il decadimento di quest’ultimo che, per via di diversi elementi, ha mantenuto in vita l’attenzione del pubblico verso la commedia e ha resistito nonostante la mancanza del facile appeal attoriale delle generazioni precedenti. Il film di natale, il cinepanettone, un tipo di pellicola che fino a poco tempo fa dominava le scene, per una serie di istanze caratterizzanti diventa il “nemico” principale del cinema “serio”, ed il modello che impartisce è sicuramente un esempio di cinema “liberista”, di film fatti in funzione di pubblico pagante e product placement non rispettando, almeno secondo le logiche del finanziamento statale, i principi impartiti dal MiBAC.
Gli scorreggioni e i Nanni Moretti
Oltre quattro milioni e mezzo di spettatori e 28 milioni di euro. Queste sono le cifre di un singolo film: Natale sul Nilo. Cifre simbolo di 27 anni di cinepanettone, termine inizialmente dispregiativo poi adottato dagli stessi autori per definire quella che, insieme ai film di Fantozzi, è probabilmente la “saga” più redditizia della storia del cinema italiano. Il genere pone le sue fondamenta nel filone vacanziero che già caratterizzava un certo tipo di commedia tipica degli anni ’50 e ’60. Alla base di Vacanze di Natale, capostipite della serie c’è Vacanze d’inverno, film del ’59 di Mastrocinque con Sordi e De Sica (padre), da cui il cult dei Vanzina riprende sia gag che snodi narrativi. La factory targata De Laurentiis riusciva con un solo film a incassare 28,3 milioni di euro, solamente al cinema. E proprio il cinema inteso come luogo, che negli anni ’80 vide una profonda crisi con l’avvento della televisione, torna a vivere con le pellicole Filmauro, film in grado di fissare quello in sala come l’appuntamento immancabile del periodo natalizio. Gli italiani vanno al cinema solo quando fa freddo ci dice con sarcasmo Andrea Minuz, questo per farci capire quanto il film di natale, oltre ad una valenza di costume sia stato una vera e propria intuizione di mercato, incidendo sul ritmo circadiano dello spettatore̶ consumatore italico. Uno spettatore che si è ciclicamente avvicinato alla sala, prima sotto gli effetti di uno “star̶ system” di cui Sordi e Totò erano protagonisti o per la ricerca della tetta nel film d’autore, poi sotto le luci di un cinema liberalista dove l’attore rimane in copertina ma è il genere a suggestionare la visione, in particolare per quanto riguarda il carattere corale della storia. Il cinepanettone si propone innanzitutto come film popolare, un tipo di film letto sempre in maniera problematica in Italia e si aggancia direttamente con la commedia italiana più popolare, quello che faceva il padre Steno, solo che a differenza di quest’ultimo e dei registi di quella generazione a mancare è proprio il Sordi e il Gassman di turno, quindi avendo nel film personaggi televisivi come Jerry Calà o Ezio Greggio, attori sicuramento non a livello di quelli sopracitati, la coralità diventa obbligata. I grandi registi della commedia all’italiana avevano il grande privilegio di poter costruire film su misura a grandi attori. È per questo motivo che probabilmente i Vanzina si sono sentiti valutati inferiormente rispetto ai predecessori del genere, per la mancanza del grande attore. Il cinepanettone convive con i suoi detrattori ma continua a essere visto e ad incassare. Questo succede fino al 2011 con il film che si può davvero definire ultimo vero film della saga, Vacanze di Natale a Cortina, opera fatta anche con l’intento di riconciliarsi a quella che fu la pellicola madre. Il grande filone che ha portato tanti soldi all’industria cinematografica giunge al suo epilogo per tanti motivi. Il pubblico si stanca, non è scemo e ad un certo punto smette di farsi propinare la stessa formula tutti i natali. Un’altra ragione è sicuramente da ricercare nella crisi della sala, in quanto il film di natale funzionava in quanto appuntamento annuale in sala, ora con Netflix e binge̶ watching lo spettatore se ne sta a casa sotto le coperte a guardarsi le serie. E infatti quest’anno il cinepanettone che probabilmente sarà più visto è proprio quello “distribuito” da Netflix, Natale a 5 stelle, con la regia di Marco Risi e la sceneggiatura di Enrico Vanzina. Lo spettatore stanco a cui non puoi più proporre gli stessi contenuti e che ormai non va più in sala non rappresenta un problema per “l’altro cinema italiano”, quello autoriale e impegnato, spesso sorretto dai finanziamenti statali che, attraverso i suoi parametri più culturali che economici, hanno portato ad un’interdipendenza tra valori statali e produzione creativa. Negli anni ’70, dopo il Decameron di Pasolini, qualsiasi film che avesse un vago accenno a Boccaccio prendeva finanziamenti statali, pure film come Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. I criteri di valutazione spesso fumosi del ministero per finanziare un film fissano tuttavia un principio di base: il film deve avere una valenza sociale o “culturale”, nell’accezione più ampia del termine. Un muro di Berlino che divide in due i Nanni Moretti da una parte e “gli scorreggioni” dall’altra. Quello che film come Perfetti Sconosciuti sono riusciti a fare è stato quello di andare a stabilire una commedia di mezzo, media, brillante accessibile al pubblico ma comunque di livello per andare appunto a spaccare quel muro. Il muro è stato sicuramente abbattuto, e il cinepanettone è morto. Però un tempo c’è stato un cinema liberista che vogliamo immaginare come antagonista inoffensivo di un certo Soviet del cinema italiano.
Con i contributi di

Francesco Paolo Savatteri
Redattore

Cosimo Maj
Redattore