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Lasciare tracce di sé

Un approfondimento sull’arte di elaborare una nuova identità postumana, che coinvolge l’ambiente circostante e le nostre interazioni con esso, grazie alle testimonianze di un’artista emergente.

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Questa intervista nasce da due prime volte: per me la prima in uno studio di artista, per Alice Capelli invece è la prima visita nel suo nuovo studio. Classe 1997, Alice si è laureata in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera nel 2020 e da poco ha concluso un master sperimentale in Art and Ecology alla NABA. Insieme abbiamo parlato dei nuovi temi e delle modalità espressive dell’arte contemporanea.

Corpo sociale (Social Body), 2021 iron, underwear and clothespins, plastic wire with iron core, acrylic emulsion, latex and pigments on raw cotton canvas, 400 x 200 cm / 220 x 110 cm

Definire l’umano dai suoi resti

Ho incontrato Alice alla mostra Transmateria presso la galleria Art Studio Finestreria. Questa mostra conclude il percorso intrapreso da tre artisti che hanno frequentato il master sperimentale Art and Ecology presso la NABA. La mostra, in linea con le tematiche del master, si interroga sul significato della presenza umana sulla terra: cosa resta dopo il nostro passaggio? Con l’obiettivo di togliere l’Uomo dal centro e sostituirlo con i suoi resti –  rifiuti, polvere, pelle –  gli artisti elaborano una nuova identità postumana che coinvolge l’ambiente circostante e le nostre interazioni con esso.

 

Interessata fin da bambina alla dimensione corporea, Alice Capelli sceglie di esporre l’opera Strapparmi la buccia box (2023), continuum della sua performance Strapparmi la buccia. L’opera si presenta infatti come la testimonianza di un’azione performativa letterale: uno strato di lattice liquido, che diventa a tutti gli effetti una seconda pelle, viene fatto asciugare sul proprio corpo, dipinto e infine strappato via come la pelle del serpente”. All’interno della box troviamo quindi una foto della performance e i resti dei “lembi di pelle” strappati, come se fossero appena caduti dalla fotografia. I materiali sono collocati all’interno di una cornice più profonda del normale, che per Alice è paragonabile a un reperto sacro e nel complesso ricorda le reliquie dei santi. 

Alice mi racconta di essere spaventata dalla morte, quindi sente la necessità di lasciare qualcosa di sé che rimanga dopo la sua scomparsa. Per questo il concetto di “traccia” da cui parte la mostra si sposa benissimo con la sua ricerca. Mi dice:«Lasciamo sulla terra i nostri resti: pelle morta, peli, capelli, unghie… lasciamo parte di noi sulla superficie. È come una continua memoria di qualcosa che è stato e che può rimanere presente. Io esisto, io sono qui, io sono stata qui».

 

Nelle sue opere la pelle è l’elemento centrale per riflettere su una nuova identità postumana che estende i limiti del nostro corpo connettendosi con l’ambiente.

Il concetto di postumano appare per la prima volta negli anni ‘80 grazie al Manifesto Cyborg di Donna Haraway. Nel testo l’autrice rielabora il soggetto sessuato a partire dal ripensamento delle sue radici corporee. Il corpo umano non viene più considerato un dato biologico, ma un campo di codici socio culturali: i nostri corpi biologici, in quanto corpi socializzati, sono modellati e controllati dalla società in cui siamo inseriti.

Negli anni ‘90, partendo dalla crisi del soggetto moderno che si apre tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, gli studi di genere decostruiscono il concetto di Uomo come entità oggettiva e immutabile. L’uomo, che fino a questo momento era stato considerato il naturale soggetto universale – il soggetto “neutro”, come lo definisce Simone de Beauvoir nel Secondo Sesso (1949) – viene smascherato in quanto identità costruita artificialmente. Al contrario, gli studi di genere mostrano che questo soggetto non ha nulla di naturale, ma è stato costruito in modo da rappresentare una precisa categoria, quella della classe dominante: uomini bianchi, cisgender, eterosessuali. 

Una volta dimostrato che l’uomo come l’abbiamo inteso per secoli ha caratteristiche precise e non è universale, è stato possibile ideare nuovi soggetti capaci di  includere l’umanità intera. Nel 1994 Rosi Braidotti teorizza il soggetto nomade, uno spazio disomogeneo e luogo di transizioni e identità multiculturali. La nozione di nomade si riferisce alla simultanea presenza di tratti quali classe sociale, razza, genere nello stesso soggetto, che si intersecano tra loro. La soggettività femminile è l’emblema di questo nuovo soggetto che si pone come possibile risposta alla crisi del soggetto moderno, il cui emblema è invece l’individuo maschio.

 

Capire cosa sia un umano oggi, sballottati tra tecnologie straordinarie e crisi ecologica, dopo secoli  di antropocentrismo sfrenato, è uno dei problemi più ricorrenti e complessi dell’arte contemporanea.

Quando chiedo se queste tematiche siano state sempre presenti nella sua ricerca Alice risponde che sì, sostituire l’antropocentrismo con un nuovo paradigma era già un tema di riflessione per lei, ma che gli studi del master sono stati una rivelazione. I testi affrontati le hanno dato una nuova prospettiva sul tema, soprattutto Bodies of Water: Posthuman Feminist Phenomenology (2017) di Astrida Neimanis. L’autrice propone una svolta filosofica “idro-femminista” basata su teorie quali l’écriture feminine di Hélène Cixous e Luce Irigaray, la fenomenologia di Merleau-Ponty e la rizomatica di Deleuze e Guattari. La filosofia di Neimanis mostra come una nuova concezione dei corpi possa cambiare il nostro atteggiamento verso le acque della Terra. L’acqua diventa l’elemento che connette ogni entità presente sul pianeta, annullando le distinzioni tra specie e tra umano e non-umano. Nello specifico per la ricerca di Alice è stata fondamentale la scoperta del concetto di membrana elaborato da Neimanis, che definisce quest’ultima  come uno strato solo parzialmente permeabile e che quindi permette un continuo scambio con il mondo esterno, in parte assorbendo liquidi e in parte rilasciandoli. 

Negli scritti di Neimanis la pelle umana è considerata una membrana perché, benché possa sembrare impermeabile questa impressione «è smentita dal fatto che sudiamo, beviamo, perdiamo, facciamo pipì, sanguiniamo e così via».

Dunque nelle opere di Alice la pelle in quanto membrana crea un flusso rigenerativo fra il nostro corpo e l’esterno, instaurando una connessione che non limita l’umano al suo corpo ma lo connette all’ambiente circostante proprio tramite i liquidi. 

L’acqua come connessione

La lettura di Bodies of Water si riflette anche in un’altra opera recente intitolata Water Traces (2023), eseguita sempre per il master in NABA. Il compito assegnato consisteva nel creare un percorso di arte pubblica attraverso qualsiasi mezzo artistico, Alice ha scelto la performance. L’opera in realtà comprende più medium: azione performativa, video, sculture e fotografie. Nata e cresciuta a Milano, sceglie di partire da un luogo molto significativo per lei, i navigli. 

Receipt box, 2023 cardboard, latex, photographic print on receipt paper 11,5 x 7,5 cm performer: Alice Capelli, photographer: Michela Pasotello Foto di: Matteo Morando

 

Seguendo il flusso dei due navigli principali, il naviglio Grande che nasce dal Ticino e il naviglio Pavese che sfocia nello stesso fiume, il percorso diventa come un cerchio che si chiude. Durante gli studi preparatori per il progetto Alice ha scoperto che la sua città fino ad un secolo fa era completamente attraversata dai corsi d’acqua, di cui ora rimangono solo pochi canali. L’acqua –  e nello specifico i navigli – hanno da sempre un’importanza vitale per Milano, sia per gli spostamenti che per la vita quotidiana. Tra la fine del ‘800 e gli inizi del ‘900 la maggior parte dei corsi d’acqua che attraversavano Milano furono interrati, di fatto cambiando radicalmente la geografia delle città e le abitudini dei suoi abitanti.

Questo cambiamento radicale per Alice rappresenta «un parallelismo tra la violenza che è stata fatta nei confronti dei canali interattivi e la violenza che viene effettuata su un corpo».

La città è quindi un corpo e i navigli sono le sue vene. Alice, così, decide di portare una parte di sé all’interno di questi corsi d’acqua che hanno avuto un ruolo tanto importante nella sua vita. Crea delle sculture in ghiaccio – palline di circa 5 cm di diametro – che contengono unghie, capelli, insieme a fiori secchi che colleziona fin da bambina nei libri: queste parti di sé, sia fisiche che emotive, le permettono di donarsi ai navigli senza però turbare il loro equilibrio ecologico. Durante la performance le sculture vengono trasportate in due secchi e poi gettate nell’acqua in un’offerta rituale. Della performance rimangono quindi il video, le foto e una scatola che contiene una piccola fanzine e le foto della performance stampate su carta scontrino. Proprio quest’ultimo reperto secondo Alice è il più pregnante, perché l’effetto ottenuto restituisce il senso di “scomparsa” che voleva comunicare nell’opera.

Questo lavoro sembra andare in controtendenza rispetto alla sua ricerca, mi dice, perché ha come soggetto qualcosa che è scomparso. Ma non credo sia così: Milano è una città che nonostante la sua continua evoluzione e cambiamenti repentini, conserva piccole tracce del suo passato, dalle mura spagnole in porta romana, ai navigli, passando per le chiese romaniche e gli edifici ottocenteschi. Sono, appunto, tracce di epoche passate che si fondono con il presente, ma che non scompaiono mai del tutto.

Water traces, 2023 Ice, hair, dried flowers, old nails, natural colors, buckets.
Itinerary performed at Navigli of Milan duration: 60 minutes, performer: Alice Capelli
photographer: Michela Pastorello foto di: Matteo Morando

Passato, presente e futuro del corpo

Se le tracce sono una parte fondamentale del suo lavoro, anche il corpo lo è. In tal senso Alice mi confessa che il suo lavoro ha ancora dei limiti. Poiché usa molto il suo corpo, ciò che lo spettatore percepisce spesso è solo la fisicità di un corpo femminile e non un medium artistico usato come strumento. Lavorare con il corpo nudo, specialmente un corpo femminile, risulta ancora più difficile quando si ha un interesse sulla ricerca corporea ed erotica. 

 

Alice sembra muoversi sul filo di un rasoio semantico: il corpo come strumento artistico e il corpo politicizzato nelle sue opere si alternano e convivono. Si infervora quando qualcuno dice che oggi fare ricerca sul corpo e sull’erotismo è inutile, come se ogni riflessione sul tema si fosse esaurita tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90.

Al contrario, a causa dei cambiamenti sociali, tecnologici e politici avvenuti negli ultimi decenni è un tema ancora più attuale e importante da trattare, proprio tramite un passaggio del testimone tra le artiste che hanno operato in quegli anni. 

Dal passato Alice trae sicuramente tematiche e modalità espressive. Ad esempio mi racconta che la performance Strapparmi la buccia, di cui abbiamo già parlato, è stata eseguita solo una volta coinvolgendo il pubblico, ed è stata un’esperienza totalmente diversa dal realizzarla in solitudine. In un ambiente semibuio l’artista cammina in mezzo al pubblico che, senza l’uso di parole, viene invitato a strappare la “seconda pelle” dell’artista: ma nella performance non c’è violenza, non c’è denuncia, ma anzi un senso di comunità e di collaborazione.
«Quando lo faccio da sola è un medium più che una performance, mentre con l’intervento del pubblico quando ho camminato tra loro e senza parlare gli facevo capire che dovevano strapparmi il materiale di dosso è stato stupendo, perchè ognuno strappava in modo diverso, ognuno si interfacciava a me a modo suo, è stata per me una condivisione. Lasciavo loro il materiale che strappavano, ognuno si teneva la propria parte».

 

Subito mi viene in mente la performance di Yoko Ono Cut Pieces del 1964, una delle prime performance esplicitamente femministe della storia dell’arte. L’artista si trova seduta a gambe incrociate e permette al pubblico di tagliare i suoi abiti, fino a rimanere praticamente nuda. La performance viene storicamente interpretata come una denuncia riguardo la violenza contro i corpi femminili. In modo simile Marina Abramovic si mise a disposizione del pubblico con la performance Rhythm 0 (1974) nella quale l’artista si pone come oggetto nelle mani del pubblico. Entrambe le performance sfociano in forme di violenza e hanno un sottofondo di denuncia tipico di quegli anni. 

Al contrario Alice, nel suo Strapparsi la buccia entra in contatto – quasi in simbiosi –  con il pubblico, senza bisogno di parole. Benché il corpo sia protagonista fondamentale, non c’è denuncia né violenza. L’artista vuole raccontare quanto il corpo diventi documento e testimonianza del nostro passaggio sulla terra e nel farlo coinvolge gli spettatori. 

 

Questa performance, pur portando con sé l’impronta del passato, ha modalità espressive molto più delicate. In realtà guardando le opere di Alice, dalla pittura fino alle performance, la delicatezza sembra un tratto distintivo, tanto che prima di conoscerla la immaginavo una persona pacata e riservata; al contrario ho conosciuto una persona forte, decisa ed estroversa. Anche quando mi parla della sua infanzia passata a disegnare corpi nudi in una scuola di suore non trovo traccia della delicatezza e dell’introversione che mi ero figurata prima di incontrarla. Comunico apertamente questa mia impressione e Alice mi risponde con prontezza: «Per me è importante mostrare anche questo lato di me perchè non voglio avere paura, è fondamentale per me superare i miei limiti. Le mie opere non sono divise da me, è davvero in relazione con la mia vita e con la mia persona. Soprattutto perché ho cominciato, fin da bambina, a disegnare per un bisogno di introspezione».

 

La dolcezza risulta essere a tutti gli effetti una sua scelta formale e concettuale:

«Credo che si debba sensibilizzare le persone attraverso la delicatezza, non attraverso la violenza. Lavoro in maniera molto delicata, anche per i materiali che uso. Per me è importante non struprare la vista degli spettatori, ma entrare in empatia con loro. La prima naturale espressione di me è sempre cercare di entrare in simbiosi con gli altri. Cercare di comprendere il prossimo è una cosa che faccio naturalmente ed è una cosa che si riversa nella mia arte: nella scelta dei colori, dei materiali, della forma delle installazioni. Per me è fondamentale riuscire ad abbracciare le persone».



Nota di addestramento a una giovane donna, 2021 Emulsione acrilica, pigmenti, grafite, pastelli morbidi su tela 133 x 98 cm Foto di: Matteo Morando
Trecce di Alice Capelli. Foto di: Matteo Morando.

La scelta non è casuale: da sempre il taglio di capelli è una strategia usata in tutto il mondo per omologare le persone o per punirle, basti pensare ai bambini nei collegi italiani, ai nativi americani inseriti in scuole cristiane o alle donne accusate di collaborazionismo durante la seconda guerra mondiale.

Il titolo è Ho tagliato la corda, dove per corda si intende tutte quelle norme sociali educative a cui siamo sottoposti che ci impediscono di comprendere l’unicità dei corpi e della nostra sessualità. Spezzare la corda per Alice significa: «la liberazione da delle costruzioni educative istituzionali e sociali che viviamo in Italia fin dalla nostra infanzia». 

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