Nel marzo 2018, il presidente dell’Autorità Generale dello Sport dell’Arabia Saudita, Turki Al-Sheikh, ha annunciato la sottoscrizione di un accordo decennale con la World Wrestling Entertainment per ospitare nel Paese gli eventi della principale federazione di wrestling professionistico del mondo. Una notizia, data anche la scarsa considerazione del wrestling professionistico all’interno del panorama sportivo internazionale, che è passata sotto traccia nelle cronache delle maggiori testate internazionali.
In realtà, quell’accordo siglato nel marzo 2018 ha rappresentato il primo passo della strategia ideata dalla monarchia saudita per conquistare un posto di rilievo all’interno dello sport internazionale, fondamentale per cercare di risollevare l’immagine del Paese.
Obiettivo 2030
Il forte investimento da parte di Riyad nel wrestling professionistico fa parte della strategia Vision 2030, l’ambizioso piano promosso dalla corona saudita, nella figura del principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud, per cercare di rendere l’economia del Paese meno dipendente dall’esportazione di petrolio e di rendere l’Arabia «una potenza negli investimenti globali». Come affermato dallo stesso Bin Salman nella presentazione del progetto: «La nostra ambizione è a lungo termine. Va oltre il rifornimento di fonti di reddito che si sono indebolite o il mantenimento di ciò che abbiamo già raggiunto. Siamo determinati a costruire un Paese fiorente in cui tutti i cittadini possano realizzare i propri sogni, speranze e ambizioni. Pertanto, non ci fermeremo fino a quando la nostra nazione non sarà leader nel fornire opportunità a tutti attraverso l’istruzione e la formazione e servizi di alta qualità come iniziative per l’occupazione, salute, alloggio e intrattenimento». Un obiettivo che Riyad si promette di raggiungere entro il 2030.
Un piano fondato anche sull’immagine internazionale della monarchia saudita, la quale ancora oggi paga il coinvolgimento come mandante di bin Salman nell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi presso l’ambasciata saudita ad instanbul. Pur se il presidente americano Joe Biden ha concesso l’immunità al principe saudita per il caso,il fatto che la mente dietro la Saudi Vision 2030 sia legata dall’opinione pubblica ad un atto così grave ha a lungo frenato le ambizioni di Riyad. La stessa WWE, dopo aver sottoscritto l’accordo con l’Autorità Generale dello Sport saudita, ha subito a lungo le critiche dell’opinione pubblica americana per la decisione di legarsi economicamente ad uno Stato direttamente coinvolto nella morte di un giornalista residente negli Stati Uniti e columnist del Washington Post. Per sostenere lo sforzo di ripensare totalmente l’economia del Paese, bin Salman ha ricercato la strada migliore da percorrere per cercare di risollevare l’immagine internazionale dell’Arabia Saudita ed accrescere allo stesso tempo il soft power della monarchia saudita nello scenario politico globale. Una strada identificata da Riyad in dei massicci investimenti nel mondo dello sport professionistico.
E poi venne il golf.
Dopo l’accordo con la World Wrestling Entertainment, il passo successivo per Riyad è stato lanciare una sfida diretta ad una delle organizzazione sportive più prestigiose al mondo: il PGA TOUR. A lungo la maggior parte dei golfisti del circuito hanno espresso insoddisfazione nei confronti della scarsa remunerazione data dalla semplice partecipazione ai tornei del TOUR. Lamentele che non sono passate inosservate il Public Investment Fund saudita, tramite il quale Riyad muove i suoi enormi capitali ottenuti dalle esportazioni di petrolio e li investe all’estero, che ha deciso di rispondere tramite la fondazione nel 2021 della LIV Golf, lega professionistica globale staccata dal PGA TOUR.
Oltre ad alcuni cambi regolamentari, pensati per accrescere il godimento del pubblico nei confronti dei tornei della neonata lega, la principale attrattiva per i golfisti è data dall’enorme montepremi messo a disposizione dal PIF. Pur dinanzi alla decisione del Commissioner del PGA TOUR Jay Monahan di bandire dai propri tornei qualsiasi atleta avrebbe partecipato agli eventi della LIV, il richiamo dei ricavi sicuri promessi dal fondo arabo ha fatto breccia nel mondo del golf professionistico, spingendo anche personaggi del calibro di Dustin Johnson, ex numero 1 al mondo, ad incorrere nel ban dal TOUR pur di partecipare alla nuova lega. Non sono mancate critiche invece da parte dei giocatori rimasti fedeli al PGA, che hanno visto in Rory Mcilroy il portavoce principale della loro avversità nei confronti della creatura del PIF.
La scelta di investire nel golf professionistico non è casuale: come sottolinea Dario Saltari nell’articolo in cui viene analizzata la vicenda della LIV Golf, «il golf – che forse in Europa è percepito come un ininfluente gioco tra ricchi – negli Stati Uniti è lo sport sia del capitale che del potere – cioè degli industriali e dei lobbisti, ma anche dei presidenti e dei membri del Parlamento». Non è un caso che la fine dello scontro tra PGA e LIV, con la decisione da parte di Monahan di accettare la fusione delle due leghe il 6 giugno 2023, sia coincisa con la visita in Arabia Saudita del Segretario di Stato americano Antony Blinken, l’ennesimo passo nel processo di riavvicinamento fra gli Stati Uniti e la monarchia saudita promossa dal governo di Joe Biden. Anche in questa vicenda, il golf si è confermato come protagonista assoluto della politica americana.
Infine venne il calcio.
Con la conclusione della vicenda inerente alla LIV Golf, che ha segnato l’ennesimo successo per la strategia d’investimenti promossa dal Public Investment Fund, adesso la monarchia saudita può concentrare i propri sforzi nel suo progetto più ambizioso: la conquista del calcio professionistico. Sulla scia di quanto successo con il Mondiale in Qatar del 2022, a lungo minacciato dal possibile sciopero delle nazionali occidentali per lo sfruttamento dei lavoratori migranti nella costruzione degli impianti e per lo stato dei diritti civili nello stato del Golfo e poi rivelatosi un enorme successo economico e diplomatico, l’Arabia ha dato una nuova spinta nell’ambito degli investimenti calcistici.
Dopo l’acquisizione nell’ottobre 2021 del Newcastle United Football Club da parte del PIF, club portato in due stagioni dalla lotta retrocessione all’accesso diretto ai gironi della prossima Champions League nel contesto ipercompetitivo della Premier League, la monarchia saudita ha deciso di concentrare i propri sforzi sulla crescita del proprio campionato nazionale. Il 5 giugno 2023, il giorno prima dell’annuncio dell’accordo tra LIV Golf e PGA TOUR, il Public Investment Fund ha annunciato l’acquisizione del 75% delle azioni dei quattro principali club del Paese: Al-Ittihad, Al-Ahli, Al-Nassr and Al-Hilal. Eccezion fatta per l’Al-Nassr, che aveva portato in Arabia Saudita Cristiano Ronaldo nella scorsa finestra invernale di calciomercato, le restanti squadre arabe, forti dei miliardi messi a disposizione dal PIF, stanno procedendo a cannibalizzare l’attuale sessione di calciomercato. Da stelle sul viale del tramonto come il mediano del Chelsea N’Golo Kanté a giocatori affermati nel pieno della carriera come Ruben Neves, acquistato dall’Al-Hilal per la cifra monstre di 55 milioni di euro e che ha preferito i soldi offerti dalla squadra saudita rispetto alla prospettiva di giocare per il Barcellona campione di Spagna, fino al caso eclatante di Karim Benzema, Pallone d’Oro in carica che ha accettato la corte dell’Al-Ittihad per 200 milioni netti a stagione.
Manca in questa lista Lionel Messi, che alla scadenza del contratto con il Paris Saint-Germain ha optato per il trasferimento negli Stati Uniti all’Inter Miami. Il fenomeno argentino, pur non giocando direttamente nel campionato saudita, rimane il vero asso nella manica per la promozione internazionale del Paese, avendo recentemente concluso, come riportato dal New York Times, un accordo con l’Autorità del Turismo saudita dal valore di 25 milioni di dollari l’anno per promuovere il turismo, tramite vacanze extra-lusso totalmente a carico della corona saudita. Un passo fondamentale per rendere il fresco vincitore della Coppa del Mondo in Qatar il principale sponsor per il principale obiettivo inseguito dalla monarchia saudita: i Mondiali di calcio del 2030.
La ciliegina sulla torta
Nelle idee di bin Salman, la vittoria della candidatura saudita nella corsa per i Mondiali di Calcio del 2030 rappresenterebbe il trampolino di lancio fondamentale per raggiungere tutti gli obiettivi presenti nel suo progetto Saudi Vision. Idea rafforzata, come abbiamo accennato in precedenza, dall’enorme successo ottenuto dal Qatar con l’organizzazione della Coppa del mondo dell’anno scorso. Un simile successo organizzativo, unito alla sempre crescente rete di investimenti nel mondo dello sport professionistico, donerebbe alla monarchia saudita una fondamentale risorsa per il soft power del proprio Paese, ad oggi quasi totalmente assente a causa della dipendenza dell’Arabia dall’esportazione di petrolio. La combinazione di un’economia sempre più diversificata e il raggiungimento di progressi interni nel benessere generale della popolazione saudita sono elementi fondamentali, nei piani della Corona, per risollevare del tutto l’immagine internazionale del Paese, duramente colpita dalla vicenda Khashoggi.
Se il golf è stato sapientemente utilizzato come testa d’ariete per facilitare la normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti d’America, l’imposizione di una egemonia saudita nel mondo calcistico, sport di riferimento nel continente europeo, africano e sud-americano, estenderebbe il potere diplomatico di Riyad ben oltre la forza dell’esportazione del proprio petrolio. Potere che la monarchia saudita è pronta a raggiungere a qualsiasi costo, come dimostrano i 200 milioni investiti dall’Arabia nella Superlega africana per sostenere il progetto della Confédération Africaine de Football. Investimento pensato per ottenere i voti dei paesi membri del CAF proprio in vista della candidatura del Paese per ospitare il Mondiale di Calcio nel 2030. Una candidatura che, nell’ottica della monarchia saudita, ha il potere di definire il futuro protagonismo del Paese nello scenario politico internazionale.