Volevo andare negli Stati Uniti ma sono finita in Marocco.
Non proprio un passaggio automatico, ma quando gli host dei workaway a New York e Los Angeles hanno smesso di rispondere, ho capito che non potevo più aspettare. O parto ora o non parto più. La naturale conseguenza è stata scrivere a tutti i progetti che accogliessero volontari a maggio e nel giro di ore avevo risposte dall’Uganda, dal Kenya, dall’India, dal Marocco. Oltre alle questioni di ordine pratico – vaccini, visti, costi – un messaggio è stato per me decisivo nella scelta della destinazione. “Il mio nome è Redouane. Vengo da una famiglia nomade, abbiamo passato tutta la nostra vita nel deserto, spostandoci da un luogo ad un altro finché non ci siamo fermati alle porte del deserto, Erfoud”. Vivere al confine del deserto con una famiglia berbera* di origine nomade suonava come una bella avventura.
La sera successiva ero su un aereo diretto a Marrakech. Non avevo un programma, l’unica parola in arabo che sapevo era salaam e neanche sforzandomi avrei potuto immaginare quello che avrei vissuto il mese successivo.
Dopo un paio di tappe turbolente e circa 12 ore di bus in un solo giorno, sono arrivata ad Erfoud, la città alle porte del deserto. Con i suoi 23.000 abitanti, si trova a circa 45 km dal confine algerino ed è l’ultima vera città prima del Merzouga Desert. Il viaggio per raggiungerla è stato intenso: sette ore e mezzo di bus in cui non ho mai staccato gli occhi dal finestrino. Da brava figlia della nostra società produttiva avevo pronti in borsa un bel libro, il kindle (perché non si sa mai), il pc con “cose da fare”, le cuffie. Ho appoggiato quella borsa pesantissima sotto i miei piedi e non l’ho più aperta. Dal momento in cui siamo partiti, il susseguirsi di paesaggi così nuovi ai miei occhi è stato il mio unico intrattenimento. Un film argilloso in continua trasformazione: prima città, poi villaggi fatti di fango, montagne rocciose, asini e sguardi curiosi, e infine il deserto. Chilometri e chilometri di terra arida, uno specchio polveroso del cielo con cui si divide lo spazio quasi a metà, intervallata solo da qualche oasi verdissima di datteri che spunta all’improvviso e veloce come un miraggio se ne va.
All’orario a cui era previsto l’arrivo, il bus si ferma in una città rosso Marte, l’autista biascica qualcosa che interpreto come Erfoud, Erfoud!! e traballante scendo i gradini. Sono un po’ disorientata, mi guardo intorno non sapendo cosa fare quando un ragazzo con un sorriso bianchissimo incorniciato da un volto simpatico, mi viene incontro dicendo: «Alice, marhaba, welcome to Africa!». Mi stringe la mano come quando ci si mette in posizione per un braccio di ferro; in questo caso però si trasforma in un saluto: spalla-spalla, pacca sulla schiena e abbraccio. In chiusura grida ancora Africaa sorridente.
Trentasette anni, grande amante del cibo berbero e della birra , Redouane ha smesso di essere musulmano 7 anni fa ma non l’ha mai detto a sua madre. Parla liberamente della sua storia, si vede da quanto sorride che è molto orgoglioso di sé. Quando però provo a chiedere più dettagli su com’è stato essere un bambino in una tribù nomade del deserto, la sua luce si offusca per un attimo. Quando gli chiedo cosa è stata la cosa più difficile che ha dovuto fare nella sua vita, dice «Avevo 13 anni e dovevo lavorare la terra dalle 7 del mattino alle 8 di sera. Ero un bambino ed è stato davvero molto difficile. Non come voi che fate solo tre ore di volontariato o anche meno. Ma sono stato paziente, un passo alla volta.». Cammino per le stanze di questa casa fatta di sabbia, acqua e mani mentre penso alla sua storia. Sopra di me è appesa la bandiera berbera blu, verde e gialla. Al centro campeggia la lettera ⵣ, ovvero la lettera z dell’alfabeto tifinagh, la scrittura tuareg. Simboleggia resistenza, vita, per Redouane «That means freedom!». La libertà per tutti di essere ciò che Redouane ha avuto il coraggio di andarsi a prendere. Nato nel villaggio, ha vissuto la sua infanzia spostandosi di luogo in luogo e imparando le attività necessarie alla sussistenza della famiglia: allevare le capre, impastare mattoni, coltivare la terra. Nel tempo libero, tornava ad essere un bambino: giocare a pallone, scalare le palme, essere felice col niente. Intorno ai 13 anni parte per cercare un impiego a Marrakech, dove gli stipendi sono più alti. Lavora la terra – questo è ciò che sa fare, e vicino ai 20 anni approda come giardiniere in un hotel di proprietà di una famiglia spagnola. Si distingue per l’impegno e viene preso sotto l’ala protettrice della mujer, quasi come un figlio. Piano piano gli iniziano a insegnare l’inglese e lo spagnolo, Redouane assorbe ogni parola e la fa sua, impara le lingue sfruttando ogni occasione con i turisti dell’albergo, con la famiglia. Lo zelo è ricambiato, gli spagnoli decidono di pagargli l’esame di guida e la patente per metterlo a fare la navetta per l’aeroporto. Anni dopo, lo ritroviamo alla guida dei tour nel deserto, a narrare le storie del luogo da cui proviene.
La sua storia potrebbe finire qui. Invece continua. Il nonno di Redouane era un nomade che ha deciso che non voleva più esserlo. Suo nipote, tanti anni dopo, ci racconta che il governo marocchino non voleva concedere niente ai berberi e allora loro si sono presi le terre con la forza. Il pezzo di terra in cui sono stata ospitata è proprio quel pezzo di terra. E mentre lui costruiva la sua vita altrove, suo padre iniziava a tirare su le mura di una casa, impastando fango the berber way. Quando Redouane porta la famiglia spagnola in visita, l’occhio da businesswoman della signora gli fa notare come lo spazio sia enorme e più che adatto per trasformarlo in un ostello in cui poter davvero vivere a contatto con la cultura marocchina. Redouane ci pensa, torna alla terra e insieme al padre costruisce quella che diventerà Casa Redouane (in spagnolo). Apre nel 2019 ai volontari di tutto il mondo e nel giro di poco tempo, nonostante il Covid, tantissime persone si presentano alla sua porta. “Always people here, always people” ci dice ogni giorno, mentre cerchiamo di indovinare la nazionalità della prossima persona che arriverà. Benvenuti a Casa Redouane, Ksar El Bouya.
Piccolo villaggio a 10 minuti da Erfoud, El Bouya è un luogo che vive ancora della lentezza dei palmeti e degli asini. Tanti anni fa venne costruito un sistema di irrigazione che corre attraverso le vie polverose e trasporta la vera ricchezza di questi luoghi: l’acqua. Raccoglie moltissime famiglie imazighen che si sono piano piano stanziate e hanno creato un luogo tutto per loro. Si percepisce infatti nell’aria come le persone di questo posto si sentano prima imazighen (plurale di amazigh) che marocchine; il governo è un’entità soffocante ma anche lontana e la vita qui continua a scorrere secondo le centenarie leggi del deserto. Appena arrivati, i bambini ci lanciano sassi, ci inseguono, ci fanno la linguaccia. Siamo gli unici stranieri in tutto il villaggio e nonostante siano anni che Casa Redouane ospita persone da tutto il mondo, continuiamo ad essere un misto tra intrusi e un fenomeno curioso per la popolazione locale. Un pomeriggio esco da sola e mi siedo a guardare i bambini che giocano a calcio, unica attività che si svolge dall’alba al tramonto. Nel giro di minuti vengo raggiunta da una folla di bambine che si presentano e mi chiedono come mi chiamo. «Alice, ciao!» rispondo. «Hi Alicia!» dice una di loro, e da quel momento sarò Alicia per tutti. Iniziano a farmi delle domande in arabo, a dirmi i loro nomi e ridono costernate indicando il mio septum e i miei capelli biondi. Due ragazzine più grandi di 14 anni si presentano come Selma e Hafsa. Sono molto diverse: Hafsa è velata e completamente coperta e cerca di prendermi la sciarpa per avvolgermi la testa. Selma, con i capelli raccolti in una coda nerissima, le dice di no: «La, la» ripete. Entrambe mi abbracciano e mi baciano, mi dicono «I adore you» e «You are so beautiful». Poi notano il mio telefono, «Iphone, Iphone» e tutti accorrono per vedere questo telefono da sogno. Apro Spotify e chiedo loro di mettere una canzone; sul ritmo di Love by Kouz1 guardiamo insieme la mia galleria e ogni foto raccoglie un coro di «Ohhh» che fa eco tra i bambini. Anya, una delle più piccole ma delle più sveglie mi continua a ripetere «Traducción, traducción». Finalmente capisco, apro Google Translate e iniziamo a parlare, per davvero. Mi chiedono cosa faccio nella vita, quanti anni ho, se ho fratelli o sorelle. Poi le due più grandi prendono il controllo del telefono. E allora le domande sono: perché viaggio sola, dov’è mio marito, che lavoro fa. Improvvisamente dalla moschea suona il muezzin, riempie il campo da calcio fatto di sabbia, le vie, le case e tutti acchiappano i fratellini, si urlano dei saluti, corrono a casa come i bambini che sono. Hafsa e Selma sono due delle tante donne che ho incontrato in questo viaggio, uno spettro così vario da confonderti.


Un’altra è la figura che si staglia a fianco a Redouane, Hajar, sua moglie: ha 24 anni e ha tre figlie, Yasmina di 5 anni e due gemelle di 5 mesi. Anche lei è amazigh e nonostante abbia solo un anno in più di me ha una presenza matronale, una tale cadenza nel camminare che con ogni passo rimarca che è lei la padrona di casa. Però, se le rivolgi la parola torna ad essere una giovane ventenne che timidissima cercherà di rispondere con le poche parole di inglese che sa e diventerà tutta rossa.
A Ouarzazate, a metà strada tra il deserto e Marrakech, ho invece avuto occasione di conoscere Wissal, una ragazza sui 25 anni, amica di un’amica, che mi ha fatto da guida nella sua città per una sera. Anche lei di origine amazigh ha studiato a Marrakech e ora lavora in un’agenzia turistica. Sogna di aprire in un futuro lontano un hotel nel luogo da cui viene, Zagora, dove accogliere gli stranieri. Nel frattempo mi spiega la sua idea imprenditoriale: vuole mettere in piedi un’esperienza immersiva per le donne con le donne. Le turiste che vengono in Marocco non possono davvero apprezzare la realtà femminile, quella che si vive dentro casa e dentro gli hammam. Sta quindi costruendo un percorso guidato in cui sia possibile riempirsi gli occhi di questo mondo che c’è dietro le mura degli edifici: un mondo fatto di gioielli, vesti coloratissime, balli e canti. Mi chiede cosa ne penso e le dico che io lo farei di sicuro. La serata è animatissima, mi porta a provare le lumache, mi regala un braccialetto, mi spiega ogni dettaglio di ciò che vediamo. E ad un certo punto la mia curiosità ha la meglio e le chiedo perché non porta il velo. La risposta che mi dà mi colpisce moltissimo: mi spiega infatti che la sua scelta di non indossarlo è la più alta forma di rispetto che possa portare al velo stesso. Indossarlo comporterebbe molte regole e divieti che lei non potrebbe rispettare a causa del suo lavoro – come non parlare agli uomini senza che ti abbiano rivolto la parola prima loro – e quindi lei, come tante altre giovani, hanno deciso di non portarlo per correttezza. Le chiedo se vorrebbe mai vivere altrove, lei mi dice di no, che il Marocco è il posto più bello che ci sia e che da quel momento ho una famiglia pronta ad accogliermi ogni volta che tornerò.
C’è invece chi il Marocco l’ha lasciato. Come Imane, che ci parla da soli 3000km di distanza, dalla periferia di Venezia dove vive. «A pranzo mangio Cous-cous, a cena pizza» ci dice quando le chiediamo cosa significa per lei essere un’ italo-marocchina-amazigh. Un modo simpatico ma puntuale per far capire come per tante e tanti figli della diaspora l’identità territoriale sia un concetto tanto fragile quanto pervasivo.
Non abbastanza italiana per l’Italia, non abbastanza marocchina per il Marocco, soprattutto avendo fiere e solide origini Amazigh. Sono però proprio queste che spingono Imane a dedicare interamente lo studio della propria tesi di laurea in scienze politiche all’analisi storico-politica dell’identità di questa etnia. Una tesi e uno studio, ci tiene a specificare, che non ha fatto per divulgazione all’attenzione degli occidentali o degli europei (che comunque ignorano completamente l’esistenza di questa cultura), ma per aiutare chi, come lei, vuole conoscere fino in fondo la propria così particolare, e tante volte dimenticata, origine. Le fonti accademiche sul popolo Amazigh sono scarsissime, in italiano quasi nulle, e le poche che è riuscita a trovare e su cui ha iniziato i suoi studi sono in inglese, francese o arabo, una lingua che però, tolta la traduzione delle sūre del Corano, per assurdo non conosce. Imane infatti è cresciuta tra Italia e Marocco, ma non quello che potremmo conoscere noi turisti italiani, il suo Marocco: le città montane, fuori dalla modernità di Marrakech o Rabat, dove chi incontri per strada parla quotidianamente Tachlhit (una delle decine di varianti linguistiche del ‘’berbero’’), non l’arabo marocchino. Così crescendo, Imane, scopre quasi per caso, che non parla la lingua che gli altri immigrati conoscono: quando in Italia trova altri marocchini non può parlare con loro se non in Italiano. Diventa una situazione ambigua, quasi spiacevole, confessa Imane. I marocchini che non conoscono o comprendono la sua origine, la guardano in modo strano, come se non fosse davvero una di loro.
La sua lingua, le sue tradizioni, l’approccio alla religione, alla cucina è un altro.
È quello amazigh.
Parlando di cosa significhi essere donna ci dice: «Le discriminazioni che ho vissuto sono state provocate dall’essere amazigh, non donna nello specifico». C’è però, nello stereotipo del mondo arabo, l’accostamento della donna berbera all’immagine della prostituta. È un fenomeno più recente, provocato dai moti di colonizzazione araba quando non di rado si rapivano e abusavano le donne nomadi o di queste tribù. In realtà, internamente, la cultura berbera è molto più egualitaria di quanto si tenda a pensare. Ci sono proprio tradizioni e riti nella mitologia e simbologia dove la donna è centrale; storie e leggende in cui le donne ricoprono ruoli di potere. Cita, per farci un esempio, la storia di Kahina, Regina della tribù berbera nomade dei Ğerawa, la principale figura della resistenza all’invasione araba del Nord Africa tra il 695 e il 705.
Hafsa, Selma, Hajar, Wissal, Imane, Redouane. Storie così diverse tenute insieme da un unico fortissimo filo conduttore: essere Imazighen. Un piccolo spaccato di una cultura antichissima che continua a vivere attraverso occhi così lontani. C’è chi rimane e chi parte, chi non torna e chi non se ne andrà mai: tutti però portano con sé un’origine e un patrimonio comune, più forte di qualsivoglia colonizzazione, diaspora, migrazione, modernizzazione. In un racconto ognuno ha dei ruoli: ci sono loro, i protagonisti e ci siamo noi, che possiamo scoprire con rispetto un mondo lontano e ascoltare, accumulando storie, singoli frammenti di un puzzle più grande, del quale ci dimentichiamo di fare parte. La bellezza sta nel fatto che in ogni momento possiamo partire e intrecciare la nostra storia con quella degli altri e finiremo per scoprire così tante forme, voci e colori che il mondo non potrà che sembrare un po’ meno senza senso. «Africa zwina, my friend» mi direbbe Redouane. «L’Africa è bella, amica mia».
*Il termine berbero deriva dal greco-romano barbarus, poi barbar in arabo. È stato utilizzato per molto tempo per indicare l’insieme di etnie del Nord Africa, con una propria lingua e cultura, che in origine non sono state arabizzate. Come minoranza, sono stati e sono ancora discriminati e la parola berbero è stato spesso associato ad un’accezione negativa e dispregiativa. Per questo motivo oggi è corretto utilizzare l’endonimo amazigh che significa “uomo libero”. Nell’articolo abbiamo scelto di utilizzare entrambi i termini in base al personaggio e al mondo di cui stavamo parlando. Chiedendo a Redouane quale termine tra i due preferisse, ha risposto che lui utilizza il termine berbero e non vuole essere chiamato in altro modo. Quasi come a riappropriarsi in modo positivo di una parola che è stata scelta per loro e che così perde di potere. Al contrario, Imane ci ha espressamente chiesto di utilizzare il termine amazigh, percependo berbero come scorretto. Abbiamo quindi deciso di utilizzare entrambi i vocaboli, rispettando la richiesta dei diretti interessati. Per approfondire: Da berbero ad amazigh, non è solo una questione di lingua.